Il cerchio si stringe. La strenua battaglia che ha visto gli Stati Uniti, negli ultimi anni, persistere nel tentativo di “incastrare” Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, sembra giunta al momento della verità. Così, perlomeno, sostiene la stampa americana, nel riportare la notizia secondo cui i funzionari del Dipartimento di Giustizia avrebbero preparato una richiesta di rinvio a giudizio a suo carico. Le accuse sono venute alla luce qualche giorno fa attraverso un documento, non correlato al caso Assange, in cui i procuratori hanno fatto inavvertitamente riferimento ad esso e ai nuovi sviluppi.
Una “bomba” scoppiata proprio mentre il reporter della CNN Jim Acosta, a cui la Casa Bianca aveva ritirato l’accredito dopo l’insistenza mostrata dal giornalista nel porre a Trump le proprie domande, è stato reintegrato per ordine del tribunale. Due vicende – quella di Acosta e quella di Assange – apparentemente lontane l’una dall’altra, ma che in realtà si intersecano su un terreno normativo e costituzionale comune, base fondamentale della democrazia americana: il Primo Emendamento. È proprio in rispetto del “First Amendment”, infatti, che Acosta è stato reintegrato, ed è sempre in suo nome che Assange, fino ad ora, non è mai stato incriminato. Perché un Paese che nella Costituzione porta incastonato il principio di assoluto rispetto della libertà di espressione mai avrebbe potuto abdicare a quel principio per perseguire finanche un cittadino straniero.
Non a caso, in tutti questi anni si è tentato di cogliere in fallo il fondatore di Wikileaks in altri modi: con le accuse di violenza sessuale, o cercando di dimostrare che, non essendo un giornalista, non avrebbe potuto affidarsi alle tutele dedicate a quella professione. In realtà, neppure quest’ultimo approccio si è dimostrato efficace, proprio in virtù dell’ampiezza del concetto di libertà di espressione sancita dal Primo Emendamento, che non protegge soltanto gli operatori dei media, ma anche i privati. La libertà di stampa e la libertà di espressione vengono in questo modo legate l’una all’altra, fornendo uno scudo addirittura nel caso in cui, come per Wikileaks, vengano diffuse informazioni sensibili. Infatti, neppure l’idea di perseguirlo come cospiratore è riuscita ad intaccare la barriera protettiva del diritto costituzionale.
Che cosa è cambiato, dunque? Che cosa ha improvvisamente reso vulnerabile Assange? Da un lato, i media hanno parlato di un sostanziale cambiamento politico in Ecuador. Il fondatore di Wikileaks vive infatti da anni nell’ambasciata ecuadoreña a Londra, ma con il tempo – e la nuova amministrazione – è diventato un ospite sempre meno gradito. Un anno fa, il nuovo presidente Lenín Moreno aveva infatti imposto ad Assange di non rilasciare dichiarazioni che potessero compromettere le relazioni tra il governo di Quito e altri Paesi. Nonostante questo, il fondatore di Wikileaks aveva protestato a favore della causa dei secessionisti catalani. Quindi, come “punizione”, era stato privato dell’accesso a internet e della possibilità di ricevere visite. Diritti, ad oggi, in parte ristabiliti, pur con persistenti restrizioni. Non solo: Assange deve ora garantire economicamente il proprio mantenimento, sottoporsi a visite mediche trimestrali a sue spese, e provvedere alla pulizia dei propri spazi e della sua gatta. Non solo. Un articolo uscito proprio in questi giorni ha denunciato una situazione ben più grave: “Il rifugio di Julian Assange nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra si è trasformato in un piccolo negozio degli orrori”, si legge. Addirittura, le condizioni a cui Assange sarebbe sottoposto sono state descritte dall’ex presidente ecuadoregno Rafael Correa con l’inequivocabile termine di “tortura”.
Christine Assange, la madre del fondatore di Wikileaks, in un recente video ha parlato della condizione del figlio: “Nonostante Julian sia un giornalista pluripremiato, molto amato e rispettato per aver rivelato coraggiosamente crimini di alto livello e corruzione nell’interesse pubblico, ora è solo, malato, in pena, messo a tacere in isolamento, tagliato fuori da ogni contatto e torturato nel cuore di Londra. La gabbia moderna dei prigionieri politici non è più la Torre di Londra. È l’ambasciata ecuadoriana”. E se è vero che il Dipartimento di Giustizia americana è pronto a perseguirlo, se Assange venisse definitivamente “abbandonato” dagli ecuadoreñi potrebbe essere arrestato.
In aggiunta a ciò, pare che la via per sfuggire alle garanzie del Primo Emendamento sia stata aperta dall’indagine del procuratore Robert Mueller sul ruolo della Russia nelle elezioni del 2016. Durante la campagna elettorale, infatti Assange distribuì migliaia di e-mail riservate dei Democratici, trafugate da hacker russi. Una delle accuse a suo carico, dunque, potrebbe essere quella di spionaggio.
Anche se l’amministrazione Obama ha perseguito un numero senza precedenti di reati legati alla fuga di notizie, membri del team legale dell’ex Presidente si sono sempre tirati indietro con Assange, spaventati dall’idea di creare un precedente nell’equiparare l’attività di informazione su argomenti di sicurezza nazionale a veri e propri crimini. Ora, la notizia delle accuse fa pensare che il Dipartimento di Giustizia abbia superato questo dilemma, a meno che il collegamento con le interferenze nelle elezioni del 2016 abbia potuto aprire un nuovo scenario legale. In questo caso, ci si chiede che cosa ne penserà il presidente Trump, che ha sempre definito l’inchiesta sul Russiagate una “caccia alle streghe”, e che, con le dimissioni forzate di Sessions, si dice potrebbe addirittura licenziare Mueller.
Ad ogni modo, chissà se il Primo Emendamento, che tanto ha potuto nel difendere Jim Acosta dalle vendette presidenziali, potrà mettere al riparo, ancora una volta, Assange dalle accuse. Se così non fosse, proprio questo caso segnerebbe una prima breccia nell’altrimenti inscalfibile fortino di difesa che i Padri Fondatori vollero erigere a difesa dell’informazione in democrazia.