Vuoi fare il giornalista? Fallo! Suona come una provocazione, una frase da far increspare le labbra. Parole che fanno scattare il verde per l’acceleratore degli insulti dei tanti che in Italia i giornalisti li fanno per davvero ma senza la più piccola soddisfazione, nemmeno economica. Di come mai il giornalismo italiano sia così tanto in crisi ne stiamo parlando da mesi, abbiamo letto i numeri dei non-stipendi giornalistici nella prima puntata, abbiamo raccolto le frustrazioni di chi lavora nella comunicazione nella seconda. Abbiamo ascoltato dove portano gli strali delle accuse: colpa degli editori che non ci pagano più, colpa dei professori universitari che illudono i giovani che il mestiere del giornalista possa esistere ancora. Allora, in questa terza puntata, siamo andati a trovarli nelle loro cattedre, nelle loro redazioni, professori ed editori, siamo andati a portare il messaggio dei disillusi per sentirne le risposte.
Abbiamo nuotato in un mare magnum con rivoli di impossibilità e tanti scogli: i grandi editori non amano parlarne, un direttore invece tanto più è grande tanto più comprende il problema e prende di petto l’onda, senza scappare. I tanti giornalisti-pesci, grandi e piccoli, nuotano spesso senza una meta. Ma che si dice nella barca che li dovrebbe pescare? Non sarà proprio che a quei timoni, manovrando navi, in passato furono fatti degli errori che i giornalisti pagano solo oggi? L’abbiamo chiesto senza malizia e tuffandoci in mare aperto abbiamo scoperto anche l’esistenza dei sottomarini, che sembrano pesci e invece poi sono barche.
La nave da crociera: “Il giornalista oggi è come un attore”
“Vuoi fare il giornalista? Fallo”. Chi mi parla si chiama Mario Tedeschini Lalli. Vicedirettore Innovazione e sviluppo del Gruppo Editoriale l’Espresso, ha 40 anni di carriera alle spalle e andrà in pensione ad agosto. Era il 1977 quando frequentò la Columbia Graduate School of Journalism a New York. Poi in Italia militò nella redazione Audiovisivi e tecnologie dell’istruzione della Treccani, il primo contratto arrivò da Adnkronos come cronista sindacale. Un percorso proseguito con Repubblica, prima esteri poi capo redazione di Repubblica.it, CNN Italia, Kataweb, portando avanti in parallelo altre attività, un blog dal 2003 e l’insegnamento all’Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino, dove nel 1998 ha fondato, e per anni diretto, il corso di Giornalismo digitale.
La nave da crociera conosce bene la rotta, la fa da anni, ha visto i pesci cambiare e sa tracciare un bilancio degli ultimi 40 anni di giornalismo. Secondo Mario Tedeschini Lalli non è solo il mondo del giornalismo ad essere cambiato: “È l’intero mondo nel quale viviamo che ha subito e continua a subire una rivoluzione culturale (e quindi sociale e produttiva) di dimensioni inimmaginabili e di conseguenze imprevedibili. Il giornalismo, quale strumento di conoscenza e interpretazione del mondo, ne è stato radicalmente scosso e destrutturato. Alcuni importanti osservatori americani già due anni fa hanno descritto questo fenomeno come il passaggio dal giornalismo come industria al ‘giornalismo post-industriale‘. Quel mondo che conoscevamo, non dico 30, ma anche 15 o 10 anni or sono, non esiste più. L’industria del giornalismo come l’avevamo conosciuta non esiste più, ne restano alcune vestigia che danno l’illusione di una continuità”.
E in Italia si tratta di un’errata sensazione di continuità che viene resa più difficile da superare: “L’industria del giornalismo si appoggiava ed era organizzata intorno a istituzioni (contratto nazionale, sindacato unico, Ordine dei giornalisti, istituto di previdenza autonomo, ecc.) che anche ‘fisicamente’ distinguevano, e pretendono ancora di distinguere, il modo dei ‘giornalisti’ dal mondo dei ‘non giornalisti’. Il crollo del giornalismo come settore industriale comporta anche il crollo di questa struttura organizzativa. Il che tuttavia è doloroso, molto doloroso per chi resta sotto alle macerie”.
L’universo digitale ha tolto il primato comunicativo al giornalismo: “Un tempo, se un sindaco doveva far sapere che si candidava e doveva raccogliere voti, non poteva che farlo attraverso un giornale o una radio-tv; se un cittadino voleva far sapere all’assessore che da tre mesi la sua strada non era illuminata, si rivolgeva a un giornale; se un’azienda voleva trovare clienti per un prodotto, comprava pubblicità su un giornale e così via. Oggi nessuno è più ‘obbligato’ a passare da noi, quindi dobbiamo in un certo senso ‘giustificare’ la nostra esistenza e il nostro lavoro”.
Ma, a differenza di quanto siamo portati a pensare, un’età dell’oro del giornalismo non è mai esistita, “in particolare del giornalismo italiano. Da questo punto di vista mi sembra di veder convergere le critiche dei vecchi giornalisti con quelle dei nuovi giornalisti, illusi gli uni e speranzosi gli altri che esistesse un tempo nel quale le cose andavano ‘come dovevano andare’. Io mi batto da tempo per una osservazione realistica del campo giornalistico italiano, cercando anche di valutarne le costanti culturali, che sono difficili da superare con semplici sforzi di buona volontà. Non mi manca granché, tranne ovviamente la gioventù, non solo anagrafica ma anche professionale, un tempo di più elementari entusiasmi”.
Cosa dice una nave da crociera ai pesci che cercano di seguire la barca? Cosa dice Tedeschini Lalli agli alunni quando si sente dire “da grande voglio fare il giornalista”? Non li invita a desistere ma li pone nel giusto orizzonte. “Il problema è che gran parte dei giovani universitari o laureati che ‘da-grande-voglio-fare-il-giornalista’, in realtà non sa bene che cosa implica la cosa. Vivono un immaginario della professione giornalistica radicalmente staccato dalla loro esperienza di utenti di giornalismo, non hanno mai aperto un giornale di carta, ma pensano che fare il grande inviato per un giornale di carta sia il massimo delle aspirazioni. Ai miei allievi e ai molti giovani che mi chiedono consiglio, dico prima di tutto di partire dalle loro esperienze: come si informa un giovane italiano che per di più vuol fare il giornalista? È in quegli strumenti, è in quei linguaggi, è in quelle forme che deve cercare di lavorare. Chi vuol fare il giornalista nel 2016 non è affatto un kamikaze, semplicemente non esiste più una carriera pre-definita nella quale si ‘entra’ e attraverso la quale si possono immaginare passi successivi”.
Secondo Tedeschini Lalli il il giovane giornalista oggi vive le stesse difficoltà di altre professioni creative: “Ha più a che vedere con un giovane musicista, un giovane attore, un giovane ballerino, che non con un giovane accountant che entra in un’azienda e poi saltando da una all’altra finisce a 65-70 anni come dirigente da qualche parte. I musicisti, gli attori, i ballerini hanno anch’essi studiato a lungo, spesso anche più a lungo e più duramente dei giornalisti, e finito di studiare si trovano a servire nei weekend in un pub e fare audizioni. Di dieci giovani attori di oggi, tra dieci anni uno avrà avuto un enorme successo e farà film, teatro e televisione; due o tre vivranno bene facendo un po’ di fiction e qualche parte minore in teatro o nel cinema; tre o quattro si arrabatteranno tra parti rade, pubblicità ed eventi corporate; uno si è comprato il pub per il quale lavorava; degli altri si è persa ogni traccia. Questa è la situazione del giovane giornalista ma con un vantaggio rispetto ai giovani attori: può cominciare a ‘fare giornalismo’ da subito, senza chiedere il permesso a nessuno perché il digitale glielo consente. E se io fossi ancora nelle condizioni di assumere qualcuno, mi guarderei bene dall’assumere assumere una persona che pur formata e colta, non abbia già cominciato a fare giornalismo per conto suo. Ai miei tempi si viveva il ‘comma 22’ della professione (ti prendo solo se hai esperienza, ma se tu non mi prendi io come mi faccio l’esperienza?), oggi non è più così. Vuoi fare il giornalista? Fallo”.
La sirena: “Il giornalista oggi è come un cocchiere”
Il mito della sirena racconta di un essere metà uomo, metà pesce. Nato come giornalista Gianni Riotta è diventato una delle personalità più influenti nel panorama giornalistico degli ultimi 20 anni. Prima reporter, a partire dai 17 anni, poi direttore delle più importanti testate italiane.
Inizia come corrispondente de Il manifesto e del Giornale di Sicilia. Poi approda a La Stampa e, nel 1988, al Corriere della Sera (come corrispondente da New York) del quale sarà anche vicedirettore. Frequenta la Columbia University Graduate School of Journalism di New York. Tornato in Italia insegna all’Università di Bologna. Fa parte del Consiglio di Facoltà del corso di cultura italiana a Princeton. La nomina come direttore del TG1 arriva nel 2006. Nel 2009 passa alla direzione de Il Sole 24 Ore, fino al 2011.
Si divide tra America e Italia e proprio come una sirena viene visto dai colleghi giornalisti come una specie di mito. Lo raggiungiamo telefonicamente mentre è a New York, risponde tra una lezione a Princeton e un articolo per La Stampa. Gli chiedo come si sia arrivati a questa crisi, cosa è stato fatto di sbagliato in passato. “Non è stato fatto nulla di sbagliato – mi spiega Riotta – È semplicemente cambiato il paradigma. Già prima esistevano pochi che facevano informazione per tantissimi. Ora ce ne sono tanti che fanno informazione comunque per tantissimi. Non è il web che ha cambiato le cose. La gente ha smesso di credere ai giornalisti. La discesa è iniziata 20 anni prima del web”.
Riotta descrive i tanti giovani che ogni giorno gli chiedono un consiglio, un lavoro. “Li vedo ingenui. Quella del giornalismo è una professione che non esiste più. Professionalmente sarà sempre più difficile, dovranno inventarsi un nuovo lavoro, non avranno gli standard dei giornalisti delle generazioni precedenti, non potranno accedere ad un mutuo a 25 anni. Lo dico sempre ai miei studenti: se voi non siete in grado di capire i guai della situazione professionale del giornalismo oggi, come sarete in grado di capire i guai di Renzi, del vostro paese e della politica internazionale?”.
E non si vede granché luce in fondo all’abisso: “Se fosse un processo reversibile non staremmo qui a parlarne. Tutte le principali testate anche estere stanno cercando una risposta al quesito di come si creino profitti dal giornalismo online. Il punto è che la pubblicità on line paga troppo poco. E non permette di pagare spese, collaboratori”.
Ma sbaglia chi pensa che la crisi sia solo made in Italy: “La crisi del giornalismo è internazionale e non solo italiana. Il Washington Post è stato comprato nel 2013 da Jeff Bezos, il fondatore di Amazon. Il sito del quotidiano ha aumentato i contenuti con più articoli pensati per attirare interesse sui social, con diverse innovazioni tecnologiche. Secondo me anche in Italia succederà tra poco così. I giornali italiani serviranno per estrapolare contenuti. È come quando hanno inventato l’automobile. I cocchieri man mano sono andati scomparendo. E questo non vuol dire che ora non esistano più i cocchieri. Possiamo fare a meno dei giornalisti ma non possiamo fare a meno della democrazia”.
Il motoscafo: “Niente fondi pubblici, meglio poveri ma liberi”
C’è una barca in balia delle onde, è piccolina, pochi passeggeri, ma ha un bel motore che riesce ad equilibrarsi sopra alle onde. Maria Clara Mussa è la proprietaria, editrice e direttore responsabile della prima realtà dedicata alla difesa: Cybernaua.it, descritto come un InformAction magazine. “Era il giornale dedicato a chi vola – spiega con gentilezza – ma dopo circa due anni, si è trasformato in un sito con l’obiettivo di testimoniare gli accadimenti in Paesi in crisi, dunque dedicato alla Difesa”.
Una trasformazione resa possibile dal connubio con Daniel Papagni, un paracadutista fotografo che si è messo a totale disposizione della webzine. “Abbiamo incominciato a realizzare reportage recandoci in ogni luogo in cui operassero i contingenti militari – racconta Mussa – dando anche spazio a qualche giovane giornalista embedded che desiderava sperimentare le missioni in teatri operativi con i militari”. Afghanistan, Libano, Kosovo, Djibuti, Mogadishu, Kurdistan, le missioni aumentano, i reportage giornalistici pure. Elmetto in testa, Maria Clara non si ferma, dopo anni passati a lavorare in televisioni private e radio.
“Nel 2003, dopo aver preso il brevetto di pilota privato nel 2001, avendo constatato come l’Aviazione in Italia sia considerata meno di nulla, ho fondato il mio giornale. È online per motivi economici e pratici, essendo sola nel condurlo e non avendo denaro a disposizione per un giornale cartaceo, ma avendo anche ben chiaro il futuro dell’informazione in rete”.
Editore, dunque, proprietaria e direttore responsabile di un giornale nato per hobby, ma da subito registrato al Tribunale di Velletri. “L’idea è nata proprio per crearmi un’attività, non remunerativa, ma adatta a soddisfare le mie passioni e la mia curiosità, nel momento in cui mi stavo avviando verso quell’età certa, in cui molti pensano di non poter più fare molto. Nel tempo ci siamo anche avvalsi di contributi esterni, sia in termini di banner pubblicitari da parte di alcune aziende del settore difesa (non molte, ma selezionate) sia in termini di reportage di giornalisti esperti di missioni internazionali, retribuiti su loro presentazione di fattura. In redazione ci sono io, seduta al desk ogni giorno, con collaboratori esterni freelance”.
Anche il motoscafo ogni tanto arranca e rischia di scontrarsi contro le chiglie di navi più solide. “Non si vive di giornalismo in quanto ormai ‘sono tutti giornalisti’. Chiunque faccia una foto o un video con il cellulare, lo pubblichi su un social, crede di essere giornalista. Credo che la caduta sia anche da attribuire all’asservimento della categoria alle esigenze degli editori legati alle lobby più varie e sostenuti dai contributi editoriali da parte dello Stato. Il vero giornalismo da molto tempo è stato sostituito dalla composizione di articoli sulla base dei lanci di agenzia. Accade anche che alcuni reportage siano soprattutto ‘riporto’ di informazioni acquisite da altre pubblicazioni ed elaborate in modo da non apparire ‘copiate’. Si possono contare con numeri bassi i giornalisti che studiano i fatti, li testimoniano, vanno nei luoghi e riportano ciò che accade. E ve ne sono di molto bravi. Ma non si arricchiscono certo con tale professione. Personalmente, in qualità di editore, vorrei poter avere a disposizione maggiore disponibilità economica per dare spazio a giovani che davvero desiderino svolgere attività di reporter e non solo di redattore seduto. E tale mia aspirazione vorrei anche riconoscerla in altri editori, ben più importanti ed equipaggiati di me. Potrei anche pensare a sinergie tra editori ma non credo sia facile dato l’italiano vizio di voler essere prima donna”. Ma niente fondi pubblici, per scelta: “Non li ho mai richiesti, ritengo sia meglio essere poveri ma liberi”.
Il mare in tempesta: leggi approvate di cui nessuno parla.
Si chiama diritto di essere dimenticati e getta onde alte e oscure su una già preoccupante libertà di stampa italiana ed europea. A descriverlo in un articolo pubblicato dal CPJ è un giornalista belga, Jean-Paul Marthoz, che si batte da lungo tempo per la libertà di stampa. Scrive: “La libertà di stampa è determinata non solo da leggi nazionali ma sempre più anche dalle istituzioni europee”, specie ora che il Parlamento Europeo ha adottato tre provvedimenti a lungo discussi: il Passenger Name Record directive, il Data Protection Package e il Trade Secrets Protection Act. Maggiori restrizioni in arrivo quindi per tutti gli Stati. Ciò che preoccupa maggiormente sembrerebbe essere l’approvazione dell’European Trade Secrets Protection: dietro alla volontà di proteggere le aziende dallo spionaggio industriale potrebbe infatti nascondersi una potente arma per bloccare e intimidire il giornalismo d’inchiesta. La seconda minaccia si chiama Diritto all’oblio e stabilisce che i motori di ricerca possano depennare intere voci dalle ricerche web. In fine il Passenger Name Record darà alle autorità nazionali ampio accesso a tutti i dati dei passeggeri aerei, una maggiore sicurezza che si paga con quella che potrebbe essere vista come una lesione dei diritti umani, come denunciano i giornalisti dell’era post-Snowden, una sorta di sorveglianza di massa dei cittadini, alla Grande Fratello. La stampa europea si dichiara arrabbiata, delusa e incerta di fronte a questi tre nuovi provvedimenti, che dovranno però ora essere approvati da ogni singolo Stato. Pesci o barche, il mare si sta facendo sempre più grosso.
Il peschereccio: “Ho avviato un progetto mio, volevo essere libero”
Sta nella sua barca con la canna da pesca in mare aperto, crea, inventa, assume. Si chiama Germano Milite, ha 30 anni, ha fondato YOUng.it è un giovane imprenditore del giornalismo e dei social che dichiara che prima di tutto bisogna cambiare prospettive.
“A 24 anni, dopo essere diventato professionista, senza avere mezzo santo in paradiso e senza aver frequentato nessuna prestigiosa scuola di giornalismo a suon di 10.000 euro annuali di tasse, ho capito che non avrei certo vissuto dignitosamente limitandomi a cercare lavori presso gli editori ‘puri’. Così ho deciso di provare la strada da freelance/consulente per le aziende e quella dell’editoria indipendente, con enormi difficoltà, tanti fallimenti ed altrettante soddisfazioni. Questo esperimento mi è servito per capire le ragioni di chi stava dall’altra parte e come un piccolo editore indipendente e senza fondi pubblici guadagna in media 30 centesimi ogni mille visite, non può certo riempire d’oro i suoi collaboratori, soprattutto se questi ultimi sono analfabeti digitali e non sanno neppure cosa sia il SEO e come si utilizzi al meglio l’editor di WordPress”.
Secondo Germano Milite le colpe non sono tutte da attribuire agli editori. “Ci sono colleghi, anche professionisti, che non si sono mai preoccupati di aggiornarsi, formarsi e di imparare a padroneggiare i nuovi canali ed i nuovi strumenti di comunicazione, oltre alla lingua inglese. Non sanno ad esempio cosa sia il brand journalism(che a me ad esempio ha permesso di girare un po’ di mondo, tra Brasile, Africa, Irlanda ed un po’ tutta Italia), né cosa significhi preoccuparsi di costruirsi una rete di relazioni online”.
Aveva appena 12 anni Germano quando in rete lanciò il suo blog online scrivendo di manga. A 21 anni c’era già il contratto a tempo indeterminato con un’emittente campana. Ma non gli bastò: “Nel 2011 sentii che ero pronto per avere un progetto tutto mio, era un mio obiettivo, volevo essere libero”. Nasce così YOUng una start up innovativa che viene incubata da Digital Magic spa e che riceve 10.000 euro nel primo anno di attività oltre al supporto legale, tecnologico e amministrativo. In poco tempo, secondo i dati di Alexa, entra tra i 400 siti più letti in Italia e oggi sui social ha quasi 90.000 follower.
“Puntiamo tutto sullo slow journalism, l’equivalente dello slow food. Analizziamo la notizia, arriviamo dopo forse ma cerchiamo di dare contenuti di qualità. Su YOUng può scrivere chiunque, compila un format e poi noi, io e il responsabile dell’area blog, selezioniamo chi ha i numeri per diventare un nostro collaboratore”.
Importante per la scelta è la lettera di presentazione: “La leggo con particolare attenzione, mi interessa l’aspetto motivazionale. Poi guardo anche se i blogger possano avere un loro seguito personale. I collaboratori vengono finanziati dalle donazioni al sito perché ho scelto di togliere i banner pubblicitari, piuttosto ho cercato di trasformare la pubblicità in un servizio per i miei lettori”.
La sinergia parla di brand storytelling, di un tour nelle aziende per raccontarle (che all’azienda costa 3.500 euro), di partnership con negozi che vengono descritti sul sito in un’apposita area che fornisce anche dei coupon sconto. “In pratica i nostri lettori diventano clienti dei nostri partner. È una cosa innovativa”.
Da giovane editore, Milite ha già capito cosa non gli permette la sopravvivenza: “Le visualizzazioni. Ogni mille visualizzazioni guadagno meno di 20 centesimi, tradotto significa una perdita netta. Cerco finanziatori per poter pagare i collaboratori (un articolo 15 euro, un’inchiesta 50). Io non chiedo a nessuno di lavorare gratis ma mi affido a contributi volontari, a partire dal mio”.
Per Germano Milite la crisi non esiste. “ È intollerabile continuare a parlare di ‘crisi’ quando in realtà esiste in maniera evidente un mero cambio di paradigma al quale è del tutto autolesionista imporsi. Il cambiamento tecnologico, sociale ed economico è come un’onda: non puoi certo fermarlo, ma solo cercare di cavalcarlo al meglio e prima possibile. In caso contrario, bevi fin quando non affoghi e non c’è nessuno contro il quale puoi frignare”.
Il sottomarino: “Non chiamateci editori”
Quando tutto sembra andare a rotoli, quando la frustrazione dei giornalisti ha raggiunto onde da surf, nelle profondità del mare qualcuno decide di lanciare ancora qualcosa di nuovo. Si chiama The Twig Magazine e ha appena qualche mese, essendo nato ad ottobre 2015. Dietro c’è la storia di qualche amico, come racconta uno dei fondatori, Federico Ciapparoni.
“The Twig Magazine nasce con l’idea di essere un prodotto editoriale fresco e innovativo. È impossibile non rendersi conto, oggi, di come il giornalismo stia andando sempre più verso la direzione dello storytelling. Raccontare un fatto o un’esperienza senza riportare la testimonianza di volti e voci che l’hanno vissuta a volte la fa risultare incompleta. Noi oltre a voler raccontare la storia di persone che con ogni probabilità non avrebbero mai il modo e lo spazio di dire la loro, vogliamo creare un network. Niente di completamente innovativo. Si tratta della Teoria dei Sei gradi di separazione di Milgram applicata al giornalismo. Al termine di ogni intervista alla persona chiediamo di segnalarci tre storie che, secondo loro, meritano di essere raccontate. Noi, come prevede il meccanismo del magazine, da ideatori del format diventiamo mezzi attraverso cui veicolare la storia, rintracciando e intervistando le persone segnalate”.
Una sorta di telefono senza fili, passaparola della notizia, messo in piedi in un periodo che si potrebbe dire nero per il giornalismo italiano, una scelta coraggiosa nata da quattro amici al bar. “Siamo quattro ragazzi, ma prima di tutto siamo quattro amici. Chi già avviato al mondo del lavoro e chi, invece, sta ultimando gli studi. Abbiamo sentito la voglia e l’urgenza di creare qualcosa di nostro, in cui incanalare le nostre passioni. Ognuno ha messo in campo le proprie competenze: chi nel settore grafico, chi nel settore di programmazione e sviluppo, chi giornalistico. Una varietà che si è trasformata in intense giornate passate attorno al tavolo di un bar del centro di Milano a discutere e trovare qualcosa di nuovo e mai visto da fare. Alla fine, senza alcun alcolico di supporto, l’idea si è concretizzata e, dopo mesi di lavoro, il primo ottobre 2015 siamo andati online”.
Ma guai a chiamarli editori. “Vogliamo slegarci da quello che è il modello editoriale classico che, probabilmente, sta affossando il giornalismo italiano. Oggi, grazie/per colpa dei social network, tutti possono scrivere e far arrivare la propria voce e le proprie idee in ogni angolo di Mondo. A far la differenza, però, è la qualità del prodotto. Le solite cose, viste e riviste, hanno stancato. La gente vuole cose nuove, dinamiche e interattive, in cui poter scegliere cosa leggere e cosa no. A volte questo, chi ha un tesserino in tasca o si proclama giornalista, non lo capisce e finisce con il replicare l’ennesimo giornale generalista”.
“Il nucleo operativo di The Twig Magazine è composto da quattro persone: due redattori, un grafico e un web designer che cura il sito web. Abbiamo un paio di collaboratori che ci danno una mano con la realizzazione delle interviste e ci avvaliamo del supporto di un nostro amico fotografo per quanto riguarda gli scatti. Per il momento, a cinque mesi dalla nostra nascita, siamo a budget zero. Gli unici fondi investiti provengono dalle nostre tasche e vengono utilizzati unicamente per far crescere il progetto”.
Nessun volo pindarico, centomila leghe sotto i mari. “Per ora non vogliamo porci obiettivi. Tutto quello che succede lo viviamo giorno dopo giorno, con la consapevolezza che quello che facciamo è qualcosa che piace a noi e agli altri. Abbiamo già suscitato l’interesse di alcuni editori, ma noi siamo molto gelosi del nostro progetto. Quello che sarà nel futuro ora non possiamo saperlo. Quello che è certo è che, nonostante le difficoltà, continueremo sempre a crederci come il primo giorno”.
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