Pino Maniaci, com’è noto, è un giornalista siciliano. Telejato, emittente locale, la sua base. Da circa un paio d’anni, con articoli, con servizi televisivi, ha tenacemente criticato la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo. Critiche documentate, precise, che hanno finito con l’indurre la Procura della Repubblica di Caltanissetta ad avviare un’indagine. Fra le persone indagate, alcuni magistrati, assai civilmente rimasti a piede libero.
Quell’ufficio giudiziario è competente per quasi la metà di tutti i sequestri e le confische, disposti in ambito mafioso, nel territorio della Repubblica. Secondo una stima prudente (che riduce da 30 a 10 miliardi di euro il valore indicato, su base nazionale, dall’Agenzia Nazionale per i beni confiscati) i beni amministrati a Palermo valgono circa 5 miliardi di euro. Il 10% in contanti. Tenete a mente questo ordine di grandezza.
Maniaci ha sostenuto che, sullo sfondo di queste cifre, si sia malversato ben oltre la minima misura di parcelle, sia pur rilevanti, e di creste o posti di lavoro, sia pure illegittimi. Il sospetto avanzato è che siano finiti nel nulla interi patrimoni aziendali, interi volumi d’affari, per centinaia di milioni di euro: o con il pretesto formale della dichiarazione di fallimento (“il 90% delle aziende finte nelle mani degli amministratori giudiziari falliscono”, ha scritto), o con obblighi di rendiconto ridotti a mera formalità.
Quanto vasta sia la dimensione del problema lo si può apprezzare dagli effetti “indiretti”: per es., l’Associazione Libera, la maggiore in Italia, fra quelle che gestiscono beni confiscati, e di cui è nome simbolico Don Luigi Ciotti, ha registrato la decisissima contestazione di Franco La Torre, figlio di Pio (estromesso via SMS, dopo serrato e facciale confronto, si può supporre); secondo La Torre, “l’antimafia di Libera ha fallito alcuni obiettivi” ed espressamente cita l’aver “sottovalutato i casi della giudice Saguto a Palermo”. Il Presidente della Commissione Antimafia, On. Rosy Bindi e il Vice Presidente, On. Claudio Fava, avevano in precedenza attestato che sulla Sezione Misure di Prevenzione “non abbiamo dati che possano inficiare condotte delle singole persone”. Ulteriore, decisivo elemento che descrive l’importanza de l’affaire, è il silenzio ordinato e cooordinato dei più reputati giornalisti nazionali : ancora Maniaci,“Mi sono rivolto a Michele Santoro, a Milena Gabanelli e ad altri”, senza averne nemmeno una mail.
Insomma, Pino Maniaci ha indicato il fondo di un pozzo profondissimo. La “copertura” ideologica, per dir così, è che “tanto erano beni di mafiosi”, per cui nessuno può seriamente protestare. Né deve.
Ora accade, lo si è appreso in queste ore, che Maniaci è indagato per estorsione. Avrebbe costretto i sindaci dei Comuni di Borgetto e Partinico, in provincia di Palermo, a sottoscrivere contratti di pubblicità su Telejato, in cambio di una “linea morbida”, come risulterebbe da “intercettazioni eseguite nell’ambito di altre indagini”, secondo la chirurgica espressione fatta circolare da chi indaga.
Maniaci ha dichiarato che si tratta della “vendetta della Procura”. Sarebbero indagini prive di fondamento, anteriori all’avvio delle sue campagne giornalistiche sui giudici di Palermo e una di esse, anzi, avviata su denuncia dell’Avvocato Cappellano Seminara, oltre ai magistrati, il maggior indagato nell’affaire sequestri e confische antimafia, in quanto titolare di circa 90 gestioni commissariali. Fermiamoci qui. Qualche breve considerazione sull’accusa di estorsione a Pino Maniaci, che sembra essere una sorta di pezza multipla.
Il caso non è solo esemplare della tempra tirannica e persecutoria ormai conseguita da un sistema di potere, di cui la magistratura italiana è massima parte. Ma anche di come esso sia giunto ad un grado di maturazione che non solo non si nasconde, ma si espone alla pubblica e diffusa constatazione.
Tuttavia, questo può accadere perchè seguitano a sbagliare anche persone di sperimentata autorevolezza come Maniaci (lui e Salvo Vitale, l’altro volto di Telejato, il 9 maggio 1978, mentre il resto d’Italia era sgomenta di fronte al cadavere di Aldo Moro, erano nelle campagne di Cinisi a raccogliere il corpo esamine di Peppino Impastato). Non, sia chiaro, nel senso avanzato dall’indagine che lo riguarda: se fosse stato dedito all’arte delle pressione giornalistica per estorcere denaro, altro che la miseria di due contrattini per qualche spot turistico avrebbe potuto congegnare! A pochi chilometri si gestivano centinaia di milioni di euro. E senza considerare la sua vita intera. Lasciamo perdere, che è meglio.
Semmai, è proprio a partire da questa constatazione che Maniaci sbaglia. E’ tutto infondato, sostiene il Nostro, “ma, intanto, mi hanno infangato”. Esatto: è proprio così. E sbaglia proprio nel non voler intendere che un simile potere lapidatorio non è casuale; né frutto dell’ipotetico abuso di questo o di quello. A conferma dell’errore che nega il carattere “sistemico” del problema, basterebbe l’ulteriore particolare fatto trapelare in chiave degradante, secondo cui anche l’uccisione dei suoi cani, avvelenati e poi impiccati, non sarebbe “una intimidazione mafiosa, ma sarebbe legata ad una vendetta privata”. Dove si vede che anche un episodio minimo, a volontà di un’incontrollabile e corale convergenza, diciamo così, interdisciplinare (investigatori, commentatori, studiosi), può arbitrariamente ampliarsi e ridursi nei suoi significati etici. Perché, viene da chiedersi, se anche fosse stata “solo” una vendetta privata, sarebbe stata meno? E, invece, l’intimidazione mafiosa è forse istituto normativo di rango pubblicistico? Simili improntitudini si possono reggere solo a spalle coperte.
E veniamo all’oggetto dell’errore, in cui anche Maniaci incorre. Le intercettazioni investigative, in Italia, hanno assunto la funzione dell’antico supplizio. Questa funzione, in realtà, è assolta dall’indagine preliminare in genere e, eminentemente, dalla carcerazione preventiva (l’espressione è questa, volutamente si accantona il mellifluo “custodia cautelare”). Ma le intercettazioni sono più insidiose, perché sono incorporee e sembrano remote dalla classica corporeità del supplizio. E invece ne possiedono magistralmente la natura.
E’ ovvio che si continui a sostenere, magari sorridendo sarcastici, o occhieggiando infastiditi, che si tratti di un mezzo di ricerca della prova; e che serva a svelare i delitti e i delinquenti. Che altro dovrebbero sostenere? Però, in realtà, gli scopi sono altri e diversi. Sono quelli del supplizio.
Il supplizio, non è una generica violenza sulla persona, esercitata da un’istituzione. Secondo la celebre analisi esposta da Michel Focault in Sorvegliare e Punire, presenta tre caratteri.
Primo: è sofferenza calcolata e misurabile, secondo un scala di afflittività graduabile. Nel caso delle intercettazioni, la scala è la pubblicazione, i gradini le modulazioni del loro contenuto. Si può offrire al pubblico ludibrio una frase, in cui sembra che un comportamento sia criminale; ma privata del contesto che potrebbe o spiegarne la legittimità o ridurne la gravità, o mutarne la qualificazione-percezione giuridica (siamo pur sempre in piazza, e non in tribunale; questo è il bello: perciò si può anche semplicemente “percepire”). Oppure un’altra, in cui la persona, pur non risultando sospetta, sembra conoscere chi è indagato e, per contagio, apparire comunque contaminata. Oppure ancora, tipologia sempre più diffusa, vengono esposte frasi in cui è evidente il solo momento intimo, di puro stupro istituzionale; momento che, tratto dall’area di significati propri ed esclusivi della riservatezza, viene fatto obliquamente dispiegare ogni sorta di valore degradante: il particolare grottesco, il commento salace o volgare, il pettegolezzo, e così via.
Secondo: il supplizio, con riguardo alla vittima (la vittima, nella “penalità suppliziante”, è l’accusato) deve essere “marchiante”, e deve precludere la riconciliazione. La memoria pubblica serberà sempre il segno della sofferenza che insulta e umilia, deliberatamente divulgata e fatta constatare.
Terzo: il supplizio, con riguardo all’Autorità che procede, alla “giustizia”, deve essere clamoroso. Deve esprimere, in tutta la sua potenza, la gloria annientatrice della persona, deve essere un trionfo.
Ora, Maniaci, tutto questo lo intende benissimo. Però, come molti, ha un appannamento sentimentale, irrazionale. E dimentica che la magistratura italiana è, da sempre, “il sistema”. Esemplarmente, il “sistema” operò nella persecuzione di Falcone; e Borsellino, nell’atrio di Casa Professa, il 23 Giugno 1992, precisamente lo disse. Pochissimi furono così poco “magistrati della magistratura” come l’uno e l’altro. Furono magistrati: e basta.
Pertanto, un mezzo di prova formalmente disciplinato da leggi, emesse in un contesto democratico e costituzionale, mai e poi mai si può trasformare in uno strumento di barbarie impunita per l’isolato malvezzo istituzionale di un singolo, e di qualche coadiutore che tambureggia “l’udite, l’udite”. Ci vogliono movenze sistemiche, si deve seguire un programma d’azione, perseguire un fine..
D’altra parte, se così non fosse, perchè Maniaci avrebbe parlato di “vendetta della Procura”? Ha denunciato una Sezione del Tribunale. E, di recente, anche una Sezione che non si occupa di affari penali, ma civili: la Sezione Fallimentare. Che c’entra, allora, la Procura, qualcuno potrebbe chiedere? C’entra, ma ad un’imprescindibile condizione, anzi, ad una serie di condizioni.
Centra, solo se ammettiamo l’interdipendenza dei magistrati che accusano da quelli che giudicano, e viceversa; solo se ammettiamo che isolare “buoni” magistrati da “cattivi” magistrati, è un’analisi senza ragionevole fondamento. C’entra, solo se ammettiamo che la “sistematicità”, che Maniaci ha denunciato nella gestione dei beni confiscati, è la stessa “sistematicità” che governa la trasformazione di un mezzo di prova in un supplizio, della democrazia in tirannia, della civiltà in barbarie; c’entra, se ricordiamo che l’ANM, con il timbro del CSM (organo costituzionale ridotto a maggiordomo di un’associazione privata), decide chi va a dirigere un ufficio, conoscendo in anticipo i caratteri, diciamo, dell’ufficio e di chi è scelto per l’incarico; c’entra, se consideriamo che le sanzioni disciplinari e i trasferimenti d’ufficio, devono appena lambire il magistrato, che a nessuno dei suoi membri bisogna mai dare del “mariuolo”: altrimenti l’effetto-Mario Chiesa sarebbe apocalittico.
A queste condizioni, si può accettare, come piena di senso profondo e di riverberi “di sistema”, la denuncia di Pino Maniaci: “E’ una vendetta della Procura” (di Palermo)
Il neo Presidente dell’ANM, dott. Pier Camillo Davigo, ha recentemente esposto anche in una intervista i punti programmatici che intende proporre all’Associazione. Spiccano due immagini, su tutte: “i politici rubano di più” e, sulle intercettazioni, “non vedo il problema”.