La notizia sembra da mezzo sbadiglio. Il Gruppo Editoriale L’Espresso e la Itedi (cioè FiatChryslerAutomobiles) editrice de La Stampa e de Il Secolo XIX, di Genova, hanno stretto un accordo, diciamo pure una fusione. Che porterà il nuovo soggetto editoriale a controllare circa il 20% del mercato italiano dei media cartacei, e a conseguire una posizione di leadership sul mercato digitale. Nel frattempo, ancora FCA, ha annunciato il suo disimpegno da RCS Mediagroup, che controlla il Corriere della Sera, mediante la cessione delle sue azioni RCS agli azionisti di FCA (Exor, finanziaria della famiglia Agnelli, in primo luogo).
Riassumendo: due dei tre maggiori quotidiani generalisti, Repubblica e La Stampa, si fondono, e il terzo, il Corriere della Sera, entra in una area a controllo fluttuante, in attesa che qualcuno trovi conveniente conferirgli una nuova identità e, ovviamente, i suoi soldi. Rumors riguardano l’editore Urbano Cairo, che è già azionista di RCS, e, forse, il Sole24Ore, ma, per il momento, è tutto vago ed incerto.
Qualche ulteriore precisazione.
Primo. Quanto a Repubblica-Espresso-La Stampa, in realtà, la CIR, presidente Rodolfo De Benedetti (il figlio di Carlo, l’Ingegnere) possiederà il 40%; FCA, tramite Itedi, il 16% circa, più un altro socio di minoranza (5%), la famiglia Perrone. Perciò comanda De Benedetti.
Secondo. Quanto al Corriere della Sera, vi è un ulteriore “contatto” fra Agnelli e De Benedetti, poichè, fra le azioni RCS Mediagroup, pronte a passare da FCA agli azionisti di quest’ultima, c’è anche un 5% di Exor, che però costituirà oggetto di uno specifico e separato accordo, proprio fra Exor e Cir. Insomma, anche sul Corriere della sera, De Benedetti allunga le mani.
Perchè, tutto questo? Costi, in primo luogo. La crisi economica ha abbattuto le inserzioni (RCS, nel 2010 fatturava circa 2.2 miliardi; nel 2015, è scesa ad 1, con un –55% circa); i giornalisti titolari di un contratto ante-crisi, sono tuttora pagati a cifre inimmaginabili per i più giovani; questo comporta la necessità di diluirne l’incidenza in strutture aziendali più ampie.
Il digitale, in secondo luogo. Davanti alle edicole, non c’è più nessuno. Le notizie si reperiscono in un altro modo.
Poi, c’è un terzo elemento, che rispecchia la crisi intergenerazionale interna alle redazioni. Come l’identità di un giornale è compromessa dal fatto che le dinamiche economiche e di potere, interne ai giornali stessi, sono oggi più feudali che in passato, (grande distanza nelle remunerazioni, diffidenza e vischiosità nella trasmissione del “mestiere”), allo stesso modo, fra i lettori si è aperta una voragine, per classi di età. Non più, a giustificare la lettura, un’aspirazione tendenzialmente politica o culturale, ma l’età. I giornali li leggono i sessantenni. Che, però, in genere, hanno un reddito vero, continuano a comprare e, perciò, non si possono abbandonare (La Repubblica, nel 2014, vendeva 306 mila copie al giorno medie, La Stampa più il SecoloXIX, circa 250.000). Un mercato c’è, dunque, ma lo si può presidiare solo riducendo i costi e mettendo le scrivanie in comune.
Bene, tutto questo è plausibile e molto ragionevole, come spiegazione di quello che è accaduto. Ma, poichè non si campa di solo pane, si possono forse avanzare modeste considerazioni su qualche non-detto.
Primo. Storicamente, le classi dirigenti economiche del ganglio trans-padano sono state parassitarie alla nascita, e tali anche nella crescita. Protagoniste anche di questa vicenda, comunque importante, anche se, apparentemente, crepuscolare. Stanno con chi ha il potere. Ma ci stanno entro una negoziazione continua, mai smarrendo la loro identità e il loro interesse. Oggi, De Benedetti, negozia con Renzi.
Secondo. Il disimpegno di quella che, com’è noto, è stata la maggiore esperienza industriale d’Italia per circa un secolo, ormai completo, non è un bene, né un male. E’ un fatto. D’altra parte, l’anno scorso, anche sullo specifico terreno editoriale, con l’acquisto di una quota di controllo dell’Economist, l’orientamento non più italiano di FCA aveva ricevuto una sorta di suggello formale. Il punto è però cosa lasciano queste ex presenze. Non lasciano nulla.
E’ un nulla etico, un nulla di conoscenza, confermato anche dal diffuso silenzio sull’argomento: nessuna piazza, nessun popolo variamente colorato, nessun temuto pericolo per le concentrazioni editoriali, per l’omologazione, per l’ulteriore chiusura anche solo di un’apparenza di pluralismo, cosiddetto. Nulla viene ad agitare le assopite coscienze di questi giornali e dei loro lettori. E’ quel nulla che si è abituato a rispecchiarsi in un sentimento di quieta autoesaltazione, superiorità e dirittura morale, e che ha legittimato l’affermarsi di almeno tre intere generazioni dirigenti, immerse, invece, nel più estenuato conformismo.
Fra queste esperienze, da questi mondi giornalistici, e che si compiacciono di dirsi pure culturali, due sole voci, negli ultimi quarant’anni e più, si sono distinte per autonomia di giudizio e autentica libertà, compresi gli errori che solo la ricerca e la tutela della libertà può comportare: Per Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. Tollerati a stento tuttavia, ma più duramente contestati, quando non offesi in termini teppistici. Esposti in vetrina come lussuosi prodotti momentaneamente richiesti ma, al primo mutare di vento, subito dismessi, e, morti, avviati ad un tenace oblìo. Oggi, da questo mondo, è germinato Roberto Saviano. Che, però, incarnazione del benpensante che sa anche copiare, furoreggia indisturbato e rassicurante.
E, se qualcuno, fra i giornalisti propriamente detti, per es., Carlo Casalegno (“siete una manica di stronzi”, gridò ai “colleghi”, qualche giorno prima di essere passato per le armi, questo grande e libero vice-direttore de La Stampa), o Walter Tobagi, (Craxi-driver, scrivevano sulle bacheche del Corriere), tentava di muoversi con onesto buon senso, senza indossare la livrea del momento, senza aggregarsi al pecoresco ammiccamento mondano, qualcun altro provvedeva a risolvere il problema. E poi altri ancora si compiaceva o, come minimo, non si dispiaceva. In ogni caso si poteva sempre mettere alla porta il reprobo, come con Indro Montanelli. Se poi seguiva gambizzazione, tanto meglio, che ritenesse a memoria la lezione.
Tali fucine di pensiero, che avrebbero imperversato nei decenni a venire, nacquero con la “controinformazione democratica”; Camilla Cederna, maieuta, su L’Espresso, della “lettera aperta” graziosamente rivolta dal fiore dell’intellighenzia al Commissario Calabresi; e, poi, ancora da L’Espresso, partirono Scalfari&Turani, per scrivere Razza Padrona, e così reggere il moccolo ad Angelo “Nino” Rovelli, patron del gruppo chimico Sir, contro “i cattivi” Cefis e Fanfani. Rovelli, poi, sarebbe diventato, a sua volta, “cattivo”, negli anni ’90, al tempo della vicenda IMI-Sir che, incorporata a quella del Lodo Mondadori, avrebbe visto Eugenio Scalfari indignarsi nell’opposta direzione, fino a quando, con “giusta” sentenza, il suo editore, Ing. Carlo, non avrebbe ricevuto giusto ristoro.
Simili liberi pensatori, limpidi cultori del disinteresse, presero quindi il volo con “la fermezza”, ai tempi del sequestro di Aldo Moro. Quando sulla fermezza soffiava l’80% della dirigenza politica italiana; ponendo, così, le basi per i radicali mutamenti istituzionali, in chiave inquisitoria, che si sarebbero avviati con Tangentopoli. Nel frattempo, furono contro Giovanni Falcone, irridendolo e dileggiandolo, al fianco della casta togata che si era decisa ad affrontarne scopertamente l’autonomia; furono, poi, con Antonio Di Pietro, al tempo in cui Di Pietro era osannato dal 98% degli italiani; e, ovviamente, furono, da allora, con la magistratura, sempre e comunque. Poiché questa, soppressa l’immunità parlamentare, con il controllo di fatto sul Parlamento e sul Governo e su ogni singola carriera politica, con l’irresponsabilità istituzionale, si apprestava a diventare, com’è diventata, l’unico reale potere istituzionale in Italia.
Sempre attenti, questi burocrati della parola di servizio, a misurare, in un minuetto incessante, l’ovvietà e il gargarismo. E traendo da quegli anni di buie paure, ma di strusciamento mestierante, ogni insegnamento in termini di attitudine all’allusione, all’insinuazione, all’origliamento, al pettegolezzo, alla parola violenta e intollerante, all’integrazione funzionale con il potere costituito. Negli anni ’80, un po’ capitalisti, ma anche no, perchè l’IRI qualche dismissione la può assicurare (Fiat-Alfa, per gli Agnelli e, ancora SME-Buitoni, per De Benedetti); un po’ con Craxi, ma anche no, perchè vuole la sua autonomia, ma pure con Ciarrapico, se serve, e con De Mita, perché no.
Crolla il Muro di Berlino, e allora, via, subito, tutto, e tutti, sotto il tappeto. E, finalmente, la bella stagione antimafia, per salire, nani, sulle spalle di giganti. Impossessarsi della loro memoria, manipolarla, oltraggiarla, assecondare fumisterie tardo-studentesche, sempre quelle, e sempre utilmente idiote. E, così mascherati, regolare antichi conti storico-politici, governare nuove urgenze strategiche, e di campo lobbistico.
Ora, affacciatosi il ganzo fiorentino, che ricevette un paio di anni fa, all’inizio della sua vicenda politica, una buona forza di consensi e di approvazione nel Paese, dietro l’aspettativa che potesse restituire un minimo di autonomia alla politica e di rinnovamento alla Nazione, offrono una melassa per negoziare. Non si sa mai.
Indimenticato rimane il “non mancheremo di farlo notare”, volendosi intendere l’impegno e il valore del giovane Rottamatore, olimpicamente largito dall’Ingegnere, la sera stessa della momentanea sconfitta verso Bersani, alle primarie.
Sempre liberi di stare liberamente con chi vince, questi eroi.
D’altra parte, come ha rivendicato senza ombra di imbarazzo Ezio Mauro, “Caracciolo era cognato di Gianni Agnelli, patron della Stampa… Eugenio Scalfari, fondatore prima dell’Espresso e poi di Repubblica, era genero di Giulio De Benedetti, lo storico direttore della Stampa… Oggi il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, viene dalla Stampa. Ieri Giulio Anselmi ha fatto il viaggio opposto, guidando prima L’Espresso poi il giornale piemontese. E torinese (a questo punto verrebbe da dire “naturalmente”) è Carlo De Benedetti”. Si sentono battere le ciglia.
In ginocchio, Italia migliore. E buona lettura.