Un nuovo messaggio terroristico si abbatte con inquietanti minacce contro gli Stati Uniti. Ma questa volta non viene da uomini in turbante con un kalashnikov al collo, ma dai Guardiani della Pace (Guardians of Peace), gli hacker che hanno rivendicato il cyber attacco alla Sony Pictures Entertainment (SPE), la divisione cinematografica del colosso giapponese, iniziato lo scorso 24 novembre. Nel messaggio, messo in rete martedì mattina intorno alle 9.30 gli autori hanno avvertito, richiamando l'attacco alle Torri Gemelle, di stare alla larga dai cinema dove verrà proiettato il film The Interview, incluse le première dello stesso. E mentre a Los Angeles una prima proiezione si è tenuta la settimana scorsa senza alcun problema, a New York la cosa è stata presa così seriamente che mercoledì mattina è stata annunciata la cancellazione della première del film che si sarebbe dovuta tenere giovedì al Landmark Sunshine Cinema nel Lower East Side.
Marc Maiffret, capo della società di cybersecurity BeyondTrust, ha dichiarato sulle pagine del New York Times che questo sarebbe il primo e preoccupante caso di una proiezione cinematografica fermata dalle minacce di un gruppo di cybercriminali. Intanto anche gli attori protagonisti hanno annullato i loro impegni promozionali del film come l’intervista accordata al sito Buzzfeed e la partecipazione di Rogen al talk show The Late Night With Seth Meyers prevista per giovedì.
“Qualunque cosa accadrà nei prossimi giorni sarà dovuta all’avidità della Sony Pictures Entertainment. […] Tutto il mondo condannerà Sony” hanno concluso. Il messaggio, non esattamente di auguri natalizi, sembra avvalorare la tesi che dietro all’attacco al sistema informatico della casa cinematografica ci sia la dittatura Nord Coreana o dei simpatizzanti della stessa come ipotizzato da un portavoce di Pyongyang che con questa seconda ipotesi ha voluto negare ogni responsabilità del regime nella vicenda. Il film incriminato è una recente commedia della Sony con protagonisti due giornalisti statunitensi, interpretati da Seth Rogen e James Franco, che, ingaggiati dalla CIA, organizzano un’intervista con Kim Jong-Un per poi fargli esplodere la testa. Il leader nordcoreano ha apprezzato la sceneggiatura tanto da aver inviato, già in giugno, una lettera al segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon in cui definiva il film “un atto di guerra”. Fatto sta che esattamente un mese prima dell’uscita del film nelle sale cinematografiche statunitensi, prevista per il giorno di Natale, i Guardiani della pace, nome del gruppo hacker, sono penetrati nei server della SPE rubando e riversando sulla rete qualcosa come 100 terabyte di materiale altamente riservato. Dati sensibili di migliaia di impiegati, stipendi dei dirigenti e addirittura social security numbers (l'equivalente del nostro codice fiscale) di alcune star tra cui Sylvester Stallone sono diventati di pubblico dominio. Molti giornali hanno anche pubblicato stralci di corrispondenze rubate tra la copresidente della Sony, Amy Pascal, e il produttore Scott Rudin in cui scherzavano sui gusti cinematografici di Obama, scommettendo che il presidente apprezzasse pellicole come Django Unchained o 12 anni schiavo, che trattano della schiavitù dei neri in America. Bella figura. Rudin si è poi lasciato andare anche a commenti su Angelina Jolie definendola “una mocciosa viziata con pochissimo talento”. Anche lei avrà certamente apprezzato.
Ma a parte queste questioni di gossip, la fuga di informazioni ha inferto alla Sony un colpo economico non ancora stimabile, ma presumibilmente di svariate centinaia di milioni di dollari dovuto alla messa in rete di quattro film ancora inediti: Annie, Still Alice, Mr. Turner e To Write Love on Her Arms. La casa cinematografica sta cercando di arginare il danno come può. Il suo avvocato, David Boies, ha inviato pochi giorni fa una lettera ad alcune testate giornalistiche statunitensi, tra cui il New York Times e il Wall Street Journal, avvertendole che se avessero utilizzato il materiale rubato sarebbero state considerate colpevoli alla stregua di chi lo ha rubato. In realtà sostenere questa linea accusatoria potrebbe risultare più complicato del previsto alla luce del caso Bartnicki v. Vopper del 2001. Nella decisone di questa controversia la Corte Suprema ha infatti confermato che il primo emendamento della Costituzione solleva i mezzi di informazione da responsabilità per l’utilizzo di materiale rubato se questo sia stato assunto in conformità alla legge e venga considerato di interesse pubblico. Ora probabilmente si finirà nel disquisire su cosa si possa intendere per interesse pubblico ma, come spiegato dal professore di legge alla Minnesota University William McGeveran al Wall Street Journal, solitamente le corti sono abbastanza in accordo coi media su ciò che è di pubblico interesse. Il primo emendamento protegge però solo la pubblicazione di materiale rubato e legalmente ottenuto, ma non la sua detenzione ed è su questo che pare Boies potrebbe puntare nell’imbastire un’eventuale causa legale.
Ma le questioni legali e il Primo Emendamento non hanno spazio nella prassi né degli hacker né tanto meno della Corea del Nord e quello che preoccupa restano le minacce terroristiche che tuttavia, fino alla cancellazione della premiere newyorchese, sembravano essere state interpretate più come un tentativo di sabotaggio dell’uscita del film, spaventando i possibili spettatori, che come un pericolo reale. E mentre da Los Angeles arriva la notizia che alcuni proprietari di sale cinematografiche stanno individualmente decidendo di non proiettare il film e il gruppo Carmike Cinemas, che gestisce 247 sale in tutto il paese ha già annunciato che escluderà The Interview dalla propria programmazione, il Department of Homeland Security ha fatto sapere che l’agenzia è al corrente della minaccia, ma che “al momento non c’è alcuna informazione credibile che indichi un complotto attivo contro le sale cinematografiche statunitensi”.