Luigi Einaudi è ricordato in Italia soprattuto come statista, padre fondatore della Repubblica Italiana e presidente della stessa dal 1948 al 1955. I più informati sapranno certamente che fu anche un fine economista, ed è proprio in questa sua veste di studioso che è stato presentato nel corso di un incontro organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di New York. A raccontarlo tre panelist di eccezione: Charles S. Maier, professore di storia all’Università di Harvard, l’economista e storico Alfredo Gigliobianco, a capo della divisione di storia economica e finanziaria della Banca d’Italia, e Luigi Zingales della Chicago School of Business.
Per comprendere appieno la teoria economica di Einaudi è necessario innanzi tutto intendersi sul concetto di liberalismo, del quale lo stesso è stato uno dei maggiori esponenti in Italia ed in Europa. Così lo definiva: “la dottrina di chi pone al di sopra di ogni altra meta il perfezionamento, l’elevazione della persona umana…una dottrina morale, indipendente dalle contingenze di tempo e di luogo”. Per Einaudi questa dottrina politica, incentrata sulla libera determinazione dell’individuo, portava inevitabilmente con sé l’adozione di un sistema economico che incentivasse il libero commercio e sviluppo economico: il liberismo.
“L’uomo moralmente libero, la società composta di uomini i quali sentano profondamente la dignità della persona umana, crea simili a sé le istituzioni economiche” affermava.
Ed è in tale sistema economico-sociale che la concorrenza ricopriva un ruolo fondamentale. La competizione infatti, come sottolineato da Zingales, vista come un modo per sottrarre controllo allo stato, assumeva in Einaudi una valenza sì economica, ma allo stesso tempo sociale. Per questo “la garanzia della libertà dei cittadini sta nell’esistenza di poteri diversi, di forze di attrazione svariate: grazie a cui l’uomo ordinario non deve necessariamente dipendere, per ottenere il pane necessario alla vita, da una forza sola”. È stato Maier a spiegare che la scienza economica era per Luigi Einaudi una scienza morale, gravata da un impegno etico nei confronti della società.
“In materie economiche, il comandamento primo è quello stesso che si impone nelle materie spirituali. (…) [l’uomo libero] non può riconoscere alcun privilegio economico a danno della eguale libertà per tutti di lavorare, di intraprendere, di risparmiare”, come si legge nelle Prediche Inutili. Ed Einaudi comprendeva bene che per il perseguimento di un tale risultato il mercato necessitasse di una struttura legislativa adeguata che ne delimitasse i confini, di un arbitro imparziale che decidesse le regole del gioco: lo stato.
“Nella sua visione le istituzioni pubbliche recitavano il ruolo del garante, non del giocatore”, ha ricordato Zingales. Ma l’aspetto forse più interessante della visione economica di Einaudi è stato affrontato da Maier all’inizio della sua presentazione: l’importanza che il presidente riconosceva al conflitto, al dibattito, alla crisi come terreno fecondo per il progresso economico. È dal contrasto con altre idee che l’individuo si convince della bontà della propria, è dal disagio che nasce la sua naturale tendenza a migliorarsi. Bene, allora l’Occidente si starebbe preparando per una grande rimonta.
In realtà i relatori, interrogandosi su come Einaudi avrebbe visto ed affrontato la grande recessione iniziata nel 2008, si sono detti perplessi. Einaudi era un uomo di un’altra era, un’era di economia reale, non di investimento. È difficile predire cosa avrebbe suggerito. Che anche la sua speranzosa visione della crisi non sia più attuale? Le grandi teorie a volte trascendono il tempo e lo spazio. Che questa sia una di quelle.