L’Ocse, Organisation for Economic Co-operation and Development, ha comunicato pochi giorni fa che il PIL (Prodotto interno lordo) mondiale migliora, con un balzo in avanti del 5,6%. La netta accelerazione è dovuta alla diffusione dei vaccini e al conseguente aumento della produzione a livello globale.
Per gli Stati Uniti, sulla spinta dell’ultimo piano da 1.900 miliardi di dollari, è previsto una crescita record del 6,5% per quest’anno, con un aumento significativo del 3,3% sulle stime fatte a dicembre scorso. Allo stesso tempo, vengono registrati notevoli aumenti per l’Italia, che raggiunge l’Europa con un incremento del Pil del + 4,2% nel 2021 e + 4,4% nel 2022 e si definiscono i termini per quanto concerne il debito pubblico, che è salito in tutta l’area euro portandosi al 102,4% nel 2021 e ad un previsto abbassamento al 100,8% nel 2022, ben lontano dall’85,8% del 2019.

All’interno dell’UE il debito pubblico vede un livello superiore al 100% del Pil “in sette Paesi” dell’area euro, cioè Belgio (115,3% nel 2021), Grecia (208,8%), Spagna (119,6%), Francia (117,4%) Italia (159,8%), Cipro(112,2%) e Portogallo (127,2%), rispetto ai soli “tre” nel 2019 (Grecia, Italia e Portogallo). In parallelo anche Cina ed India fanno molto meglio di quanto prima previsto con un aumento del loro Pil rispettivamente del 7,8% e del 12,6% contribuendo, in tal modo, alla ripresa economica planetaria. L’Interim Economic Outlook dell’Organizzazione segnala la discrasia, come avevamo segnalato in un nostro precedente articolo, fra USA ed UE. Dove i primi hanno buttato sul piatto della ripresa il corrispettivo complessivo di 2.800 miliardi, pari a circa l’8,5% del PIL, mentre Bruxelles solo 750 pari all’1% del PIL. Ed è questa inconsistente mancanza di visione lungimirante dell’UE che genera una sfiducia abbastanza diffusa e dà ossigeno al catastrofismo delle destre europee.
Un altro elemento caratterizzante che genera “rabbia sociale” in Europa è il continuo e asfissiante “politicamente corretto” che sviluppa frustrazione nei ceti sociali più deboli ed emarginati in Europa dove si vedono sproloquiare in Tv i frequentatori dei salotti buoni che spiegano, spesso, alla povera gente come ci si debba comportare. Cosa diversa, invece, fanno gli States con Biden che, pur praticando qualche salotto buono, buttano sul piatto della crisi molti soldi ben il 400% in più dell’intera Europa.
Comunque, la ripresa mondiale si è accesa e, per ora, si devono tralasciare i problemi relativi all’aumento generalizzato del debito pubblico e guardare alla crescita che butterà le basi per affrontare, successivamente, questo nodo delle economie mondiali.
L’OCSE è un’organizzazione economica intergovernativa di cui fanno parte 38 paesi membri. La sua nascita avvenne col fine di stimolare il progresso economico e il commercio mondiale. In buona sostanza è un forum di Paesi impegnati per la democrazia e la libera economia di mercato. L’OCSE fornisce strumenti per cercare risposte a problemi comuni, identificare buone pratiche e le politiche nazionali e internazionali dei suoi membri. I membri dell’OCSE sono economie ad alto reddito con un indice di sviluppo umano (HDI) molto alto e sono considerati in generale Paesi sviluppati. In sintesi, si può affermare che l’OCSE è un osservatore ufficiale delle Nazioni Unite in campo economico-finanziario.

Ciò detto, su iniziativa e spinta del presidente Joe Biden all’ultimo G7, lo scorso 1° luglio ben 130 Paesi hanno aderito a un nuovo piano a due pilastri per riformare le vecchie regole fiscali internazionali e garantire che le imprese multinazionali paghino una giusta quota di tasse ovunque operino. L’accordo ha partorito una “dichiarazione” dell’OCSE che, però, non è stata ancora sottoscritta da un piccolo gruppo di Stati capitanati dall’Irlanda e da diversi Paesi caraibici, dove i “Paradisi fiscali” vivono serenamente. Essa garantirà, da un lato, una distribuzione maggiormente equa dei profitti e dei diritti di tassazione tra i paesi rispetto alle più grandi multinazionali, comprese le società digitali. Alcuni diritti di tassazione sulle multinazionali dai loro paesi d’origine saranno riassegnati ai mercati in cui hanno attività commerciali e realizzano profitti, indipendentemente dal fatto che le imprese vi abbiano una presenza fisica. Dall’altro lato cercherà di porre fine alla concorrenza sull’imposta sul reddito delle società, attraverso l’introduzione di un’aliquota minima globale dell’imposta sulle società che i paesi possono utilizzare per proteggere le proprie basi imponibili. È stato valutato che l’imposta globale minima sul reddito delle società avrà un’aliquota minima di almeno il 15% e dovrebbe generare circa 150 miliardi di dollari di entrate fiscali globali aggiuntive all’anno.

Photo : OECD / Victor Tonelli
“Dopo anni di intenso lavoro e negoziati, questo pacchetto storico garantirà che le grandi multinazionali paghino ovunque la loro giusta quota di tasse”, ha affermato il segretario generale dell’OCSE Mathias Cormann ma ha subito precisato che “Questo pacchetto non elimina la concorrenza fiscale, ma ne fissa dei limiti concordati a livello multilaterale. Accoglie anche i vari interessi al tavolo dei negoziati, compresi quelli delle piccole economie e delle giurisdizioni in via di sviluppo. È nell’interesse di tutti raggiungere un accordo finale tra tutti i membri del quadro inclusivo, come previsto entro la fine dell’anno”, ha affermato Cormann. Il piano, così elaborato, prevede un’attuazione a partire dal 2023.
Come si è potuto evincere le intenzioni sono più che ottime e ci si augura che vadano in porto, ma non si devono nascondere le difficoltà che provengono da alcuni fattori: l’oscillante politica degli Stati Uniti che con Trump mette i dazi all’Unione europea per aver abbozzato un minimo di tassazione ai colossi informatici americani, poi tocca fare i conti con una gestione quasi elefantiaca dell’OCSE che comprende: un consigliocomposto da un rappresentante per ogni paese; un comitato esecutivo composto dai rappresentanti di delegazioni permanenti di 14 membri eletti annualmente; i comitati e i gruppi di lavoro specializzati; le delegazioni permanenti dei Paesi membri sotto forma di missioni diplomatiche dirette quindi dagli ambasciatori; il segretariato internazionale, a disposizione dei comitati e degli altri organi. Per fortuna è intervenuta, in tal senso, la Segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen che senza peli sulla lingua ha fatto una profonda autocritica in una dichiarazione rilasciata a commento dell’accordo: “Per decenni, gli Stati Uniti hanno partecipato in una competizione al ribasso della tassazione internazionale, abbassando le nostre aliquote sui redditi delle imprese solo per vedere altri Paesi fare lo stesso in risposta. Il risultato è stata una corsa globale al ribasso su chi poteva abbassare più velocemente e maggiormente la tassazione delle imprese. Nessuna nazione ha vinto questa battaglia“. Il prossimo 8 luglio a Venezia il G20 ratificherà e rilancerà i nuovi orizzonti economici mondiali.
I problemi economico-finanziari sono tanti e mutevoli, ma si tengono l’un l’altro come atomi di una stessa molecola: inflazione, debito pubblico, crescita del PIL e il fisco sono intrecciati e legati indissolubilmente, per cui La Voce di New York continuerà a monitorarli, perché da essi dipenderà il futuro delle prossime generazioni.