La scienza non è esatta e agisce per approssimazione che tende ad avvicinarsi sempre più al 100%: per questo, di solito, scienza è sinonimo di precisione assoluta. Così non è, però, con il Covid e i suoi vaccini. Infatti, Pfizer-Biontech copre tra il 88 e il 96%, Astrazeneca tra il 70 ed il 90% e questo vale per tutti gli altri farmaci.
A maggior ragione, una scienza ancor più lontana dall’assoluta certezza è l’economia, che dimostra la relatività di cui siamo prigionieri. La dimostrazione è presto detta: se ci fosse stata una formula sicura dell’economia, almeno fra il 70 e l’80%, l’umanità sarebbe quasi tutta benestante e non ci sarebbero, per farla breve, i dati terrificanti della fame nel mondo e della povertà che l’ONU fornisce con le sue agenzie.
Chiarito che in economia non esista nessuna formula magica, si può soltanto dire che il sistema economico liberale delle democrazie occidentali ha dimostrato di essere il migliore fra tutti quelli sinora attuati, anche se la povertà, al contrario del convincimento di qualche velleitario politico italiano, non è stata vinta neppure nell’intero Occidente.

Prima della pandemia, per diversi economisti, i problemi principali del mondo erano il debito pubblico di moltissimi Paesi e, dall’altro, tenere sotto controllo l’inflazione che, secondo questa scuola di pensiero, non dovrebbe mai superare il 2%. Addirittura, l’Unione Europea aveva stabilito, vittima di una forma mentis nordeuropea, che il debito pubblico non doveva superare il 60% e la BCE tenere il tasso inflattivo sotto controllo al 2%.
Dai dati forniti il mese scorso dal Worldwide Inflation Data, scopriamo che si va da un indice annuale deflattivo del Giappone pari al -0,10 %, al massimo della Turchia pari al + 16,59%.
Per quanto concerne il debito pubblico nel mondo, abbiamo una ricerca Buy Shares che ha ricalcolato il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo delle potenze mondiali.
Questa è la top ten aggiornata al 2020:
Giappone: 268,21%, Grecia: 214,29%, Italia: 156,92%, Portogallo: 150%, USA: 136,69%, Belgio: 121,15%, Spagna: 117,16%, Francia: 113,16%, Canada: 106,86%, Regno Unito: 100,87%. All’estremo opposto, una manciata di Paesi ha pochissimo debito, tra cui il Kuwait (14%), la Russia(18%) o l’Arabia Saudita (31%).

In soldoni:
Stati Uniti: 26.710 miliardi di dollari; Giappone: 12.150 miliardi di dollari; Cina: 7.320 miliardi di dollari; Regno Unito: 3.490 miliardi di dollari; Italia: 3.060 miliardi di dollari. La cosa quasi comica è che per emettere debito bisogna che vi sia qualcuno che lo compri e, paradosso dei paradossi, chi è ad esempio che detiene le più alte percentuali dell’enorme debito degli USA? Semplice: il Giappone e la Cina, Tokio con ben 1.120 miliardi di dollari del debito pubblico degli Stati Uniti, contro gli 1.110 miliardi posseduti dalla Cina, a debita distanza il Regno Unito con soli, si fa per dire, 323 miliardi.
La dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina risulta importante, ma comunque non sufficiente a fornire a Pechino un’arma di ricatto determinante da giocarsi nella partita della guerra commerciale. In pratica la Cina potrebbe minacciare di non sottoscrivere nuovo debito statunitense o, addirittura, di alleggerirne le posizioni in portafoglio, ma l’azione sortirebbe probabilmente un effetto limitato (in termini di implicazioni negative sui rendimenti dei bond USA) pagandone un prezzo salato (per effetto di riduzione delle quotazioni dei titoli in portafoglio a seguito dell’aumento dei rendimenti che si muovono in direzione opposta ai prezzi).

Entrambe le classifiche subiranno forti balzi in avanti per il 2021, perché si sommeranno altre emissioni di bond di Stati per sopperire alle fortissime cadute di produttività in tutti i settori con grandi abbassamenti dei PIL di tutto il mondo. La pandemia ha costretto i governi a spendere più soldi per salvaguardare le proprie economie, cosa che, insieme alle misure di restrizione e confinamento forzato della popolazione, ha avuto un duro impatto su tutti i debiti pubblici.
In questo sintetico quadro planetario si riaffaccia l’amletico interrogativo dell’economia che, non essendo una scienza esatta, sta facendo emergere con molta forza i due partiti che si contendono le discussioni accademiche.
Sono alcuni mesi che l’enorme massa di danaro con cui la Casa Bianca, attraverso la Federal Reserve, ha inondato il mercato finanziario e i tassi di interesse bassissimi hanno generato una robusta accelerazione dell’inflazione made in USA, arrivando a toccare il 5% a maggio. Nella Germania, invece, un tasso come quello statunitense fa sobbalzare il capo della Banca centrale tedesca Jens Weidmann che, come l’ex ministro delle Finanze Schauble, vivono il triste e amaro ricordo dell’iperinflazione tedesca durante la Repubblica di Weimar negli anni ’20 del secolo scorso.

Negli Stati Uniti Jason Furman, professore ad Harvard, è stato il principale consigliere economico dell’ex presidente Barack Obama e come vicedirettore del National Economic Council varò forti iniziative di stimolo alla spesa a beneficio dei poveri e incentivi fiscali alle imprese. Un doppio passo che, con soldi pubblici, fece adottare una linea equilibrata consentendo un buon aiuto ai poveri e incentivi fiscali alle imprese che generarono crescita e posti di lavoro. In questo momento cruciale in cui si viaggia a grandissime cifre per l’aumento del debito pubblico e, contestualmente, una forte crescita inflazionistica. Furman ha dichiarato, in una recente intervista, di non temere che una inflazione alta possa essere terribile, anzi che non la vede come un vero problema. Ha aggiunto, inoltre, che la forte domanda interna, dovuta alla forte immissione di liquidità, supererà di certo l’offerta e, per rintuzzare paragoni inesatti con la crisi degli anni ’70, dice che la Federal Reserve, fatta forte dell’esperienza di quei tormentati anni, ha imparato la lezione e che non consentirà mai più di far avvicinare l’inflazione al 10% con buona pace dei tedeschi n Europa.