Sono ormai passati undici mesi dalla comparsa del virus nella città di Wuhan e nessuno si sarebbe mai immaginato che Covid-19 sarebbe forse diventato il più grande colpo di fortuna della Cina. Mentre l’Occidente è alle prese con la violenza della seconda ondata della pandemia e adotta misure restrittive che contribuiscono al crollo del PIL, la Cina registra contagi al minimo e nessun nuovo decesso. E sebbene diversi esperti ed addetti ai lavori affermano che vi sia un’ipertrofica visione del Dragone, il Partito comunista cinese colleziona occasioni d’oro per accrescere la sua effettiva capacità, sia sotto il profilo delle relazioni internazionali, sia militare, sia economico, riducendo il suo gap.

Al 20 novembre, sono stati segnalati nell’UE e nel Regno Unito un totale di 11.542.665 casi dall’inizio della pandemia, mentre sono morte 283.673 persone.
Almeno 1.962 nuovi decessi e 187.428 nuovi casi si sono registrati negli Stati Uniti il 19 novembre. Secondo quanto riportato dal New York Times, nell’ultima settimana si è registrato un aumento del 73% di nuovi casi rispetto alla media di due settimane fa.
Il bollettino del 20 novembre mostra in Italia 37.242 nuovi contagi Covid-19 e 699 morti. Sebbene la curva epidemiologica cominci ad appiattirsi, il Ministro della Salute Roberto Speranza ha comunque firmato l’ordinanza che rinnova le zone rosse fino al 3 dicembre. Sono diverse le categorie di lavoratori che continuano a soffrire e secondo il nuovo rapporto Caritas Italia i “nuovi poveri” sono passati dal 31% al 45%.
La contrazione economica non trova precedenti, con la sola eccezione del Dragone, la cui economia prendere quota, e si prevede per il 2021 una crescita raddoppiata del PIL. Il Partito comunista cinese si è già riunito alla fine di ottobre per fissare il prossimo piano quinquennale di sviluppo il cui obiettivo sarebbe quello di diventare nel 2025 la prima potenza al mondo.

E intanto, mentre l’economia globale è in ginocchio, domenica scorsa, per la Cina è arrivata un’altra grande opportunità per accrescere il suo potere. I leader di 15 nazioni dell’Asia-Pacifico hanno siglato uno dei più grandi accordi commerciali di libero scambio della storia, che ridurrebbe le barriere in un’area che copre un terzo della popolazione mondiale e della produzione economica.
Tra i grandi Paesi che hanno aderito ci sono Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud. Combinando una serie di accordi separati in un unico accordo, RCEP avvicina l’Asia a diventare una zona commerciale come l’UE o il Nord America.

Un grande ed importante passo avanti, soprattutto in un momento in cui il multilateralismo è in crisi e la crescita globale sta rallentando. E a giovarne in particolar modo sarà la Cina grazie all’assenza dell’India. Nuova Delhi temeva che i suoi produttori sarebbero stati sommersi dalla concorrenza cinese a basso costo, e si è ritirata dai colloqui nel 2019, accrescendo le preoccupazioni tra alcuni firmatari che la Cina dominerà il patto. Il Dragone, dunque, avrà una voce importante nella definizione degli standard per il commercio regionale.
Questo accordo ridurrà ulteriormente l’influenza degli Stati Uniti nella regione, che ora si trovano al di fuori di entrambi i principali gruppi commerciali in Asia dopo che il presidente Donald Trump si è ritirato dal Trans-Pacific Partnership, un altro grande patto commerciale regionale. Né l’UE, né gli Stati Uniti, le tradizionali superpotenze commerciali del mondo, avranno voce in capitolo quando l’Asia stabilirà le sue regole commerciali.

Intanto, l’ex Segretario di Stato americano passato alla storia durante la presidenza di Nixon, Henry Kissinger, ha affermato che l’amministrazione Biden dovrà muoversi rapidamente per ricucire i rapporti con la Cina che si sono deteriorati durante gli anni dell’America di Trump o, altrimenti, rischiarà una crisi che potrebbe degenerare addirittura in un conflitto militare paragonabile alla Prima Guerra mondiale.
“L’America e la Cina stanno ora andando sempre più alla deriva verso il confronto e stanno conducendo la loro diplomazia in modo conflittuale. Il pericolo è che si verifichi qualche crisi che andrà oltre la retorica, e sfoci in un vero conflitto militare” ha detto l’ormai anziano diplomatico a Bloomberg New Economy Forum in un’intervista con John Micklethwait.

Le tecnologie militari disponibili oggi renderebbero un’eventuale crisi “ancora più difficile da controllare” di quelle delle epoche precedenti.
Inoltre, Kissinger ha affermato che i leader delle due nazioni devono riconoscere di avere visioni diverse in merito alle stesse questioni, e queste differenze influenzano i loro approcci ai colloqui. “Gli americani hanno avuto una storia di successi relativamente ininterrotti, mentre i cinesi hanno una storia molto lunga e fatta di continue crisi. L’America ha avuto la fortuna di essere libera da pericoli immediati, mentre i cinesi sono stati spesso circondati da Paesi che avevano progetti sulla loro unità”.
Per quanto riguarda l’Europa, Kissinger ha affermato che si troverà sempre più coinvolta “in un tiro alla fune tra gli Stati Uniti e l’Eurasia”. “L’Europa è stata un’àncora della politica estera americana nell’intero periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale”, ma “la domanda ora è se, nell’evoluzione delle relazioni con altre parti del mondo, tenterà di svolgere un ruolo totalmente autonomo”.