Spesso l’apparenza inganna, ma prima dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, le presidenziali americane venivano decise da un algoritmo quasi infallibile.“Lasciate ogni speranza, o voi che entrate”, recitava Dante Alighieri nella sua Divina Commedia. Il malcapitato Presidente degli Stati Uniti che entrava negli inferi di una crisi economica nell’anno della sua rielezione, poteva tranquillamente dire addio ad ogni speranza per un secondo mandato. L’esempio più eclatante fu quello del Presidente Hoover, che nel 1932, nel bel mezzo della Grande Depressione, se ne uscì con lo slogan: “La prosperità è dietro l’angolo!” Risultato? Vittoria schiacciante dello sfidante Democratico Franklin Roosevelt, che conquisto l’89% dei grandi elettori.
Per sua sfortuna, Trump si trova di fronte a una situazione economica assai peggiore nel breve termine, rispetto a quella affrontata da Hoover nel 32’. All’epoca, l’economia statunitense si contrasse del 13% su base annua. Oggi, la Federal Reserve Bank of Atlanta prevede una contrazione del 54% solamente nel secondo trimestre del 2020. Per mettere questo dato in prospettiva, durante la Grande Recessione del 2008, il peggior trimestre registrò un calo del 8.4% del pil reale. Il trimestre peggiore di sempre nella storia moderna degli Stati Uniti fu invece nel 1958, quando si registrò una contrazione del 10%. Se i dati della Fed di Atlanta dovessero venire confermati, per Trump si tratterebbe di un macigno pressoché impossibile da scalfire. Oltretutto, un recente studio condotto da Alan Abramowitz, mostra come l’andamento economico nel secondo trimestre nell’anno delle presidenziali sia quello più importante al fine di rieleggere un presidente in carica. Questo perché gli elettori hanno bisogno di tempo per digerire la propria situazione economica, e i l’andamento del terzo trimestre è troppo a ridosso dell’elezione per produrre alcun cambiamento significativo.
Seguendo il ragionamento di Abramowitz, anche se Trump dovesse godere di una grande ripresa economica in autunno, gli elettori avranno già scolpito nella propria mente per chi votare in base ai dati estivi e primaverili. La storia pare dar ragione all’ipotesi paventata da Abramowitz. Nell’autunno del 1992, George H.W. Bush non venne rieletto per un secondo mandato nonostante un’economia in forte espansione. Il Dipartimento del Commercio fu addirittura costretto a un’insolita revisione al rialzo per il terzo trimestre: da una crescita del 2.7% a una del 3.9%. Eppure, nel giorno dell’elezione, 7 elettori su 10 dichiararono che la loro percezione dell’economia era “non buona” o “pessima”. Il motivo per questa discrepanza va nuovamente ricercato nel secondo trimestre del 1992. Nonostante la recessione dei primi anni 90’ terminò ufficialmente nel Marzo del 1991, gli strascichi si trascinarono fino alla primavera del 92’, con il picco della disoccupazione al 7.8% raggiunto proprio nel mese di Giugno. I 5 mesi che separarono l’inizio della ripresa economica dal fatidico primo Martedì di Novembre non furono abbastanza per garantire a George H.W. Bush un secondo mandato.
Notiamo certamente alcune assonanze con la situazione odierna. Ora che l’America sta finalmente uscendo dal lockdown dopo l’emergenza coronavirus, ci si aspetta una rapida ripresa economica. I numeri di ieri lasciano ben sperare: 2.5 milioni di nuovi posti di lavoro solamente nel mese di Maggio. Naturalmente Trump ci si è immediatamente fiondato sopra con una raffica di tweet in modalità auto elogio. È comprensibile: questa è la sua prima vittoria spendibile in campagna elettorale dall’inizio del 2020, dopo aver quasi dato inizio a una terza guerra mondiale e aver messo a rischio le vite di milioni di americani per aver minimizzato una pandemia mondiale. Ma la vera domanda è se questa ripresa economica sia troppo poco e troppo tardi. Abbiamo già visto come George H.W. Bush non ria riuscito a conquistare un secondo mandato nonostante un’economia in forte ascesa; sarà lo stesso destino di Trump?
Per provare a dare una risposta dobbiamo riflettere sulle poche ma esistenti eccezioni all’algoritmo quasi infallibile della politica statunitense. Ovvero, i pochi Presidenti che nella storia statunitense sono stati rieletti con una pessima situazione economica nel secondo trimestre dell’anno delle presidenziali. Questi Presidenti in carica possiedono un fattore in comune? Se si, può questo fattore entrare in gioco per Donald Trump? Il caso più antico è quello del Presidente Repubblicano William McKinley nell’elezione di inizio secolo scorso, quando riuscì ad ottenere un secondo mandato nel bel mezzo della recessione del 1899-1990. Gli storici della politica americana si ricorderanno che McKinley puntò su una campagna elettorale incentrata sulla recente vittoria americana nella guerra ispano-americana. La guerra ridefinì l’identità americana ed aiutò ad eliminare le scorie rimanenti della Guerra Civile. Invece di accusarlo per la recessione, il popolo americano vide in lui un unificatore in grado di risolvere le divisioni tra nordisti e sudisti per combattere un nemico comune in nome della democrazia. Risultato? McKinley venne rieletto con il più ampio margine per qualsiasi Presidente Repubblicano dal 1872.
Questo spiega il motivo per cui Trump abbia tentato in ogni modo – prima con la guerra dei dazi e poi con l’emergenza sanitaria – di rendere la Cina il nemico perfetto agli occhi del popolo americano. Quando c’è di mezzo un nemico esterno o uno shock esogeno di ampia portata, il Presidente in carica beneficia di quello che in gergo politichese si chiama “rally around the flag effect”: un momentaneo incremento dei consensi, che in alcuni casi può portare alla rielezione del Presidente. Questo accade a George W. Bush dopo l’undici Settembre, e in parte accade anche a Donald Trump verso fine Marzo quando l’America iniziò a prendere sul serio il virus. Ma questo leggero incremento nel consenso è già sparito e Trump si trova punto a capo. Inoltre, i suoi sforzi per gettare ombra sulla Cina non pare stiano trovando molto apprezzamento al di fuori della sua base elettorale.
Un esempio più recente di un Presidente che fu rieletto con una pessima situazione economica è quello del Repubblicano Calvin Coolidge nell’elezione del 1924. Coolidge fu catapultato nello studio ovale solo un anno prima, nell’Agosto del 1923, quando il Presidente Harding mori di un infarto improvviso. L’ex vice presidente dovette portare avanti una campagna elettorale inaspettata nel bel mezzo della recessione del 1923-1924. La recessione terminò ufficialmente nel Giugno del 1924, a soli 5 mesi dal voto. Nonostante questo, Coolidge riuscì ad essere rieletto con il 54% del voto popolare. In questo caso, Coolidge non ebbe un nemico esterno per compattare dietro di se il popolo americano come fece McKinley, ma fu aiutato dalle divisioni interne nel partito Democratico. La Convention Democratica del 1924 viene infatti ricordata come la “più pazza di sempre”. I Democratici arrivarono alla Convention senza nessun vincitore nelle primarie, e dovettero sopportare ben 103 scrutini nel corso di 16 lunghissimi giorni prima di scegliere il candidato che avrebbe sfidato Coolidge. Inutile dire che il prescelto – un certo John W. Davis – non avesse il sostegno indiscusso del suo partito, figurarsi dell’elettorato democratico.
La divisione interna del partito Democratico è qualcosa che ritroviamo anche nella rielezione di McKinley. In quel caso, lo sfidante democratico era un trentaseienne di nome William Jennings Brian, che ancora oggi possiede il record per essere stato la nomination presidenziale più giovane nella storia degli Stati Uniti. Ci vollero ben 5 scrutini prima che Brian venisse nominato come sfidante del ben più esperto e scaltro McKinley. Vari leader del partito Democratico dell’epoca rimasero contrari ad affidare le redini del partito a questo giovanotto dell’Illinois, e questo non lo aiutò certamente nell’attrarre consenso tra l’elettorato.
Troviamo dunque un fattore comune tra la rielezione di McKinley e quella di Coolidge: le divisioni interne nel partito Democratico. Può questo fattore tornare utile per la rielezione di Donald Trump? Quello che sappiamo è che le primarie democratiche del 2020 sono state quelle con il maggior numero di candidati in tutta la storia degli Stati Uniti. Ben 29 aspiranti presidenti si sono presentati di fronte all’elettorato democratico. Vi ricorderete come in alcuni dibattiti iniziali i candidati si dovettero dividere in più serate perché non ci stavano sul palco. Ma nonostante questo sovraffollamento, possiamo semplificare dicendo che la maggior parte dei candidati potevano essere tranquillamente divisi in due grandi fazioni: progressisti e moderati. Ha vinto un moderato – Joe Biden – che è riuscito a conquistare l’endorsement del più importante esponente progressista: Bernie Sanders. Sulla superficie, il partito democratico di oggi appare molto più unito rispetto a quello di Davis o di Brian. Bisognerà poi vedere se questo sarà riscontrato nell’elettorato a Novembre, specialmente tra la fazione più estremista dei supporters di Bernie Sanders. Ma tutto ci spinge a dire che questo riscontro ci sarà, e il motivo sarà per via dell’odio che tutto l’elettorato democratico – moderato e progressista – prova verso il Presidente in carica. Donald Trump non troverà un partito Democratico diviso come nel 1900 o nel 1924, non perché non esistevano i presupposti per una situazione del genere, ma perché alla Casa Bianca risiede lui.
Il problema principale di Donald Trump è Donald Trump stesso.
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