Chiunque giunga a Palermo per via aerea sarà accolto sulla facciata dell’aeroporto dalla cubitale denominazione “Aeroporto Falcone e Borsellino”. Forse in ordine di data di morte e non alfabetico.
Fu il 23 maggio 1992, ore 17:57, nei pressi di Capaci, territorio di Isola delle Femmine. E sembra ieri l’esplosione che sconvolse l’autostrada A29 e mise il punto con il mistero ad un oscuro finale di partita. Una promozione equivoca e una chiusura definitiva ai maxiprocessi.
A stretto giro seguì il 19 luglio 1992 alle ore 16.58 l’altra esplosione di via D’Amelio e l’ultima strage di giudici definita di mafia. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, due personaggi associati in un destino e vittime di un progetto criminoso i cui contorni ancora oggi restano nei termini di un macabro giallo irrisolto. Ancora oggi la scoperta di una segnalazione che rimanda ancora a trascurati appartamenti e costruttori e viscide tracce sempre presenti di servizi segreti . Due degli ultimi arcani da quel primo di Portella della Ginestra attraverso la strategia della tensione e le cosiddette Brigate rosse fino all’assassinio di Moro. Poi la via carsica meno clamorosa.
Da allora tanti fatti sono intercorsi e tanti fiumi di retorica hanno scandito le ricorrenze palermitane, tanto denaro è ancora stanziato per Associazioni antimafia.
“La lotta alla criminalità non si fermerà mai”. Così quest’anno lo spot della RAI per ricordare la strage di Capaci, formula che potrebbe anche fare intendere che la criminalità non si fermerà mai. L’intelligenza degli slogan.

Il ficus gigantesco davanti alla casa di Falcone (non lo chiamo come d’uso Giovanni, come Paolo per Borsellino, per non avere avuto alcun rapporto di parentela e tale intrinsichezza, come con Papa Francesco) è diventato oggetto di culto druidico (forse qualcuno ha avanzato un processo di santificazione) con pizzini e disegnini naif di ogni forma edulcorata incollati sul tronco. Ogni anno davanti a quell’albero si è fermato il corteo per celebrarne l’anniversario, grande folla, grande oratoria, persino l’esploit di Gianni Morandi e di complessi vari. Poi dal decennale del 2002 su spinta della sorella Maria e della sua Fondazione il Ministero dell’Istruzione ha istituito la “giornata dell’educazione alla legalità” e una nave, a spese dello Stato, preleva ragazzi delle scuole di Italia e li trasborda nel nostro porto. Altra sfilata, altra retorica.
Quest’anno il COVID-19 ha impedito tutte le manifestazioni di piazza, ma non il retoricume di facciata. Scarso seguito la proposta dell’ostensione di lenzuola bianche ai balconi per ricordare la legalità oltraggiata. Tutto nel giusto ricordo, divenuto rito, senza che nessuno si sbracci per svelare le trame ancora oscure di questa travagliata Repubblica. Questo fa male.
Così da anni si è insistito giustamente e meritoriamente sul concetto di “Memoria”, il doveroso “non dimenticare” tutte le stragi e le vittime con corollario di scorte innocenti e inutili. Dalla certezza ribadita da secoli di processi che “la mafia non esiste”, si è passati alla formula che tutto è mafia. Anche se a Mirandola degli industrialotti emiliani ridevano e godevano del terremoto per previsti guadagni e anche quelli dell’Aquila e anche quelli di Livorno. La stessa risata imprenditoriale. Ma l’accusa è sempre associazione mafiosa in ogni intrallazzo di Italia con mazzette e truffe allo Stato. Perché in ogni regione d’Italia c’è ormai una commissione antimafia con un reparto segreto di incappucciati specializzato nel ramo.
Perciò mi sovviene mestamente quella contestata formula sciasciana apparsa nell’articolo del “Corriere della Sera” del 10 gennaio 1987, con titolo, redazionale, “I professionisti dell’antimafia”. Oggi la sua ferma convinzione in margine al saggio La mafia durante il fascismo dello storico Christopher Duggan, cioè che si esibiva “l’antimafia come strumento di potere”, appare un eufemismo. Direi un peccato veniale quello per il quale erano additati come simbolo di strapotere Orlando e Borsellino, vedi caso l’ultima celebre vittima di quella mafia stragista di Reina.
La dolorosa e tragica conclusione ha come apripista la spavalda gestione dei beni confiscati alla mafia e del Tribunale delle misure di prevenzione da parte di Silvana Saguto, la prima donna in un posto di tale responsabilità. Tuttavia alla luce delle nuove gestioni del malaffare i suoi trascorsi si ridimensionano al livello di ladri di polli.
Siamo ormai sprofondati nella melma più maleodorante, che sminuiscono i tempi di Giolitti.
Mentre il “traghettatore” Provenzano aveva riportato la mafia alle sue origini, silenziosa e sotterranea, secondo il principio della “mafia trasparente”, tutti i potentati si erano trasformati in prima persona in gestori di malaffare. Un breve promemoria didattico: Antonello Montante, vicepresidente di Confindustria, Roberto Helg, direttore della Camera di commercio e strenuo difensore della legalità. Tanti altri meno noti affiliati e ferventi sostenitori delle Associazioni antimafia.

Eppure quegli scandali che coinvolgevano tre pilastri delle strutture statali e confindustriali erano passati quasi in sordina. Sì, certo, avevano turbato, però poi silenzio. Dopo la svendita di tutte le industrie e i colossi statali, dall’Enel alle Ferrovie dello Stato, in nome del mercato libero (tranne l’Alitalia che macina miliardi di perdite) perché “il privato è bello ed operoso ed onesto”, non ci si poteva sputtanare troppo. La stampa sa come e quanto è giusto scrivere. Alla fine si era trattato di casi eccezionali. Come quelli dei capi della Protezione civile di Livorno in seguito all’alluvione.
Oggi con un Governo regionale che nomina un pentito 5 Stelle ora salviniano a difensore della “Identità siciliana”, per meriti di proselita di Evola, l’esplosione è peggiore di una bomba atomica e sparge vergogna e umiliazione e fa tremare i palazzi del potere, quello del Presidente della Regione Musumeci e dell’assessore alla Sanità Ruggero Razza che avevano nominato coordinatore per l’emergenza Covid-19 il prestigioso Antonio Candela, fermo ed intransigente difensore della legalità.
Se dall’esterno si guarda il suo curriculum si resta frastornati ed increduli. Direttore dell’Asp 6, la più grande di Palermo, il palermitano Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel 2016 lo aveva coronato con la medaglia d’argento al Merito della Sanità pubblica su istanza dell’allora Ministro della Salute Beatrice Lorenzin con la motivazione di essere stato «autore di circostanziate denunzie presentate alla Procura della Repubblica, con conseguente aggravamento dei rischi per la sua incolumità personale», tanto da essere subito provvisto di una scorta. Ora è chiaro che tali denunzie erano strumentali e micidiali armi di potere.
La operazione “Sorella Sanità”, quasi irridente, sostenuta da una montagna di prove sortite da intercettazioni in tutti i luoghi, casa, aeroporto, Mondello, ha messo in luce la sua tracotanza da arrogarsi il potere assoluto: «La sanità è come un condominio, e io sono il capo condominio». Suo complice sarebbe un certo Fabio Damiani, attuale direttore generale dell’Asp di Trapani. Dei 12 indagati, dieci arrestati, fra i quali Damiani e il faccendiere suo referente. Caso strano sono ai domiciliari Antonio Candela e il suo faccendiere di riferimento Giuseppe Taibbi. E il pericolo di inquinamento di prove?
Tutti a vario titolo indagati per corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, induzione indebita a dare o promettere utilità, istigazione alla corruzione, rivelazione di segreto di ufficio e turbata libertà degli incanti. Sotto sequestro preventivo 7 società, con sede in Sicilia e Lombardia, e 160.000 euro, tangenti che sarebbero state già versate su gare per un importo complessivo di quasi 600 milioni di euro: le tangenti promesse ai pubblici ufficiali, secondo le indagini, raggiungerebbero 1.800.000 euro.
Una telegrafica osservazione. La Sicilia non ha industrie di riferimento nell’area medicale.
Si è giustamente alzato il dito su un benemerito del malaffare, un professionista “verace” dell’antimafia. Però vorrei fare osservare con umiltà che le su nominate società fornitrici di macchinari finiti negli scantinati e non utilizzati, mi si diceva, per mancanza di tecnici specializzati, cioè i sospetti corruttori sarebbero tutti del Nord o con prestanome siciliano. Per chiarezza la corruzione è di tutta Italia e basta con il chiamare tutto “associazione mafiosa”. I favoriti negli appalti della Consip, Centrale unica degli appalti, sono tutti imprenditori non mafiosi del Nord, esente da corruzione. Sono semplici vittime di corruzione.
Ecco, secondo le indagini che dovranno però ancora essere vagliate alla prova del processo, l’organigramma della società accusata di delinquere e dei dieci finiti in carcere:
La Siram Spa di Milano, gruppo energetico francese Veolia, direttore unità business centro sud Crescenzo De Stasio, società di scopo assieme alla Manutencoop di Bologna (mazzetta 100.000 euro);
Società Tecnologie sanitarie Spa di Roma (mazzetta 260.000 euro), amministratore delegato Francesco Zanzi, responsabile operativo Roberto Satta, di Cagliari;
Pulizia e manutenzione locali ASP, un imprenditore del Nord (200.000 euro);
Società friulana Euro&promos, referente occulto Giovanni Tranquillo con divieto temporaneo di esercitare attività professionali, imprenditoriali e pubblici uffici; la milanese PFE Spa con sede a Caltanissetta, presidente del consiglio di amministrazione Salvatore Navarra;
La Cascina globals service, che, si dice, orbiti intorno a Comunione e liberazione (600 milioni di euro); Fer.Co. srl, referente occulto Ivan Turola, di Milano; ingegnere e membro di commissione di gara, Giuseppe Di Martino.
Da colonia qual è ancora la Sicilia tutto va ancora bene tra corrotti e corruttori. E forse è andata sempre così da quando la mafia agricola, poi del pizzo e della droga, era diventata finanziaria per lavaggio di denaro sporco. Tutto si può dire, ma non che gli industriali del Nord non corrompono. Tutto quanto da documenti di accusa, resi pubblici. Senza alcun odore di mafia. Ma di antimafia.