Sergio. Senti com’è bono sto prosciutto. Lo senti? E ‘ste olive? Come so ‘ste olive? So greche! So’ bone!
Il programma dell’evento porta i simboli dei maggiori consorzi italiani di formaggi e salumi, e la parte che dice “Taste and toast the holidays with italian and American regional food specialties” già mi fa venire in mente la scena del film di Verdone con Mario Brega bottegaio.
Insomma, la previsione è che mi toccherà ascoltare un po’ di discorsi su quant’è buono il cibo italiano, ma poi arriva il momento delle leccornie.
Il prosciutto di Parma, il Parmigiano Reggiano, il Pecorino Romano e l’Asiago (solo per dirne alcuni) si trovano anche nei supermercati americani di alta fascia, ma…costicchiano, accidenti se costicchiano. Mentre qua, all’evento organizzato dall’Ambasciata e dal suo ufficio commerciale insieme all’ICE, tutto questo ben d’iddio sarà offerto in abbondanza a tutti i presenti.
Nel programma vedo anche qualche presenza “anomala”. Sono presenti anche associazioni di prodotti alimentari USA: peperoncino nativo del New Mexico, le patate dell’Idaho, formaggi americani e altri. Chissà perché, mi chiedo. Fondamentalmente, comunque, sembra un evento come ce ne sono stati tanti in passato, sembrerebbe, solo con qualche ospite inatteso in più.
Ma che le cose non stiano esattamente così lo si comincia a intuire con i discorsi di apertura del nostro Ambasciatore Armando Varricchio e di Attilio Zanetti di Assolatte. Non si tratta del solito evento per dirci quanto sono buoni i prodotti italiani. Si tratta di un discorso più ampio, molto più ampio, e dannatamente importante per l’economia italiana, come avrei capito da lì a breve.
“The elephants in the room”
Adoro certe espressioni idiomatiche dell’inglese. Immaginate di fare una festicciuola a casa vostra ed avere, comodamente seduto sul divano, un elefante. Tutti lo vedono, tutti lo “circumnavigano”, ma, al tempo stesso, si atteggiano come se l’animale non ci fosse, come se parlarne non fosse una scelta corretta per un motivo o per l’altro. La metafora dell’elefante in salotto riguarda proprio questo: l’ingombrante presenza di una qualche “manifestazione” che, per un motivo o per l’altro, tutti vedono ma al tempo stesso evitano di affrontare o semplicemente nominare.
Bene. Di pachidermi stasera ce ne sono almeno un paio e, in realtà verranno svelati dagli speaker e dalla discussione del panel che ne è seguita.
La prima ingombrante presenza ha la forma di un Airbus, ovvero il contenzioso tra Boeing ed Airbus che si è tradotto in un contenzioso di $7,5 miliardi tra l’amministrazione americana di Donald Trump e l’UE. L’Italia non è parte del consorzio AirBus, ma è parte dell’UE. L’effetto pratico è quello che l’export italiano, formaggi, salumi e liquori in primis, rischia di diventare collateral damage di una disputa che ci dovrebbe coinvolgere in modo marginale, ma che invece rischia di danneggiarci in modo sproporzionato, anche considerando che dazi molto pesanti (25%) su questi prodotti erano già stati imposti a ottobre. La prossima revisione sarà a metà febbraio e USTR sta già considerando possibili aggiunte e cambiamenti.
Il secondo elefante sono Geographical Indications (Denominazioni Geografiche) ovvero i “marchi” DOP e DOC che conosciamo da decenni. Questa non è una questione nuova, ma è sempre dannatamente attuale. Semplificando un po’, ma neanche tanto, gli Italiani dicono: Gorgonzola, Asiago e Parma sono nomi di città e zone italiane. Cari americani, fatevi pure tutti i formaggi che volete e vendeteli in Europa e nel mondo, ma non chiamateli con i nomi che identificano i nostri prodotti, per favore.
Gli americani ovviamente la pensano diversamente. In USA sanno produrre ottimi formaggi, sicuramente, ma devono aver scoperto che “Richmond Antico” non tira come Parmesan una volta che lo piazzi sugli scaffali e preferirebbero usare il secondo nome (oramai è un nome generico! – dicono loro).
Organizzare una discussione razionale che prenda in considerazione i due elefanti non è cosa facile e all’improvviso il senso dell’evento appare più chiaro: è una situazione dannatamente più seria di quella che avevo prefigurato fino a poco fa. L’ambasciata italiana a Washington non sta semplicemente offrendo la sede per uno showcase di prodotti italiani: questo evento è molto di più. È parte di un progetto concreto dell’Ambasciatore Varricchio e del team commerciale diretto da Lamberto Moruzzi di intavolare un discorso costruttivo in un contesto difficile in cui la discussione potrebbe deragliare in vari modi.
Se la discussione deragliasse, e si andasse ad uno scontro commerciale, ci perderebbero tutti. Ci perderebbero le aziende italiane, certo, ma anche quelle americane che lavorano nella filiera di importazione, distribuzione e vendita, oltre che i consumatori. Insomma, è una di quelle situazioni in cui le nostre strutture diplomatiche dimostrano la loro importanza.
Spesso si parla delle ambasciate solo in concomitanza con eventi eclatanti, ma esiste un lavoro costante e non facile che non fa molto notizia, ma che ha un ruolo fondamentale nella difesa degli interessi nazionali all’estero.
Se il sistema Italia ha ancora qualche soldo da spendere è perché aziende italiane tirano la carretta esportando all’estero. Se non difendiamo quelle, siamo fregati.
A questo punto tutto appare più chiaro. Appare chiaro il motivo per cui tra i panelist dell’evento, accanto ai consorzi italiani, ci siano anche produttori americani che vogliono vedere protette le loro denominazioni geografiche (lo sciroppo d’acero del Vermont, il peperoncino nativo del New Mexico e le patate dell’Idaho, ad esempio). E soprattutto appare anche chiaro il motivo per cui Shawna Morris, del Consortium for Common Good Names sia lì sul palco. Quello è il consorzio dei lobbisti americani che vorrebbero usare i nomi che gli pare e che magari, dopo un po’ di tira e molla, arriva a riconoscere che “mozzarella di bufala campana” sia un DOP in cambio del riconoscimento agli americani ad usare il nome “mozzarella” per la mutzadel o come cacchio la chiamano quella roba lì gli italoamericani di sesta generazione.
Ma torniamo al resoconto della serata. Le dichiarazioni dell’ambasciatore prima e di Zanetti poi hanno preso di petto le questioni sul tavolo.
Varricchio ha spiegato l’importanza di evitare dazi aggiuntivi sui nostri prodotti. Si rischierebbe di andare a danneggiare gli scambi commerciali tra Italia e Stati Uniti, che cubano un ragguardevole 100 miliardi di dollari l’anno.
Anche per Zanetti la situazione è seria. Il 25% di dazi messi a ottobre sono già un danno grave; una guerra dei dazi spinta da reciproche ritorsioni non gioverebbe a nessuno. Infatti, ha spiegato Zanetti, il discorso DOP e Denominazione Geografica non va percepito dagli americani come una misura protezionistica, ma piuttosto con una funzione totalmente analoga ai trademark che gli americani conoscono benissimo. La Denominazione Geografica protegge in primo luogo i consumatori e la tradizione del nostro paese, ma nulla vieta agli americani di entrare nel mercato europeo. Un esempio significativo su tutti: il River Blue è un formaggio dell’Oregon che ha conquistato il titolo di campione mondiale 2019 al World Cheese Award a Bergamo, battendo anche formaggi francesi e italiani. La società che lo produce, la Rogue Creamery (uno degli “sponsor” della serata) può benissimo venderlo in Europa chiamandolo blue cheese.
Ovviamente, se volessero chiamarlo “Gorgonzola dell’Oregon”, allora no, non andrebbe bene.
Riassumendo, la Denominazione Geografica è un discorso che, pur sovrapponendosi oggi a quello dei dazi a causa delle pressioni dei produttori industriali americani, rimane in qualche modo separato. L’italia difende (e non da oggi) le sue denominazioni geografiche come si difende un marchio di fabbrica. E non lo fa in chiave protezionistica: come l’evento di oggi dimostra, l’Italia e l’Europa non vogliono bloccare le importazioni di formaggio americano, ma solo tutelare i propri brand.
La discussione del panel e le domande del pubblico hanno riguardato l’utilità delle denominazioni da vari punti di vista. L’Italia giustamente vuole preservare il valore delle sue eccellenze gastronomiche: millenni di tradizione e di diversità biologica che si riflettono nell’offerta di prodotti alimentari unici. Sull’altra lato ci sono i produttori caseari americani che vorrebbero entrare nel mercato Europeo con il loro Parmesan e la loro “mozzarella”.
Il messaggio di fondo è chiaro. Cerchiamo un compromesso sui nomi, perché il rischio molto concreto è che mentre litighiamo sui nomi, finiamo per perderci tutti, vittime dei dazi commerciali imposti a causa di un contenzioso totalmente estraneo a questa industria.
Degustazioni ed interviste
Alla discussione è seguita una reception ricca di degustazioni di formaggi e salumi, accompagnati da ottimo Prosecco. Per non esagerare con il consumo calorico ho anche fatto qualche pausa per parlare con alcuni dei protagonisti di queste industrie.
Vado a chiedere l’opinione di un signore americano che durante il Q&A aveva fatto domande. Dal tono e da una certa venatura polemica sembrava trasparire un’implicita accusa di protezionismo eccessivo da parte degli italiani con la scusa del DOP. Si tratta di Philip Marfuggi, presidente della Cheese Importers Association of America. È un signore molto simpatico.
“L’evento è stato molto informativo. Adesso tutti cominciano a capire quanto siano dannosi i dazi esistenti e quanto lo sarebbero quelli che USTR potrebbe aggiungere” – dice Philip.
“Qual’è il potenziale dei formaggi americani in Italia?”
“Molti formaggi di qualità americani potrebbero avere successo in Italia, ma non possono essere venduti in Europa ed in altri paesi a causa del nome e a causa di altre case tecniche legate alle quote e alle licenze. Per un’azienda americana è difficile esportare in Europa. In questo momento c’è uno squilibrio. Importiamo circa 1.6 miliardi di dollari di formaggio dall’europa, ma ne esportiamo solo circa $140 milioni.”
Filippo Gambassi è di Siena, ma divide la sua vita tra Poggibonsi e Richmond, la capitale della Virginia. La sua azienda ha un allevamento da quelle parti.
“Essere DOP significa essere portatori di tradizioni secolari” spiega quando chiedo anche a lui della Denominazione Geografica. “Vengano pure gli americani a vendere i loro prodotti in Italia, però gli diano i loro nomi, non si prendano i nostri”.
Insomma, i produttori italiani non hanno dubbi su questo. Dicono tutti la stessa cosa.