Distratti da drammatici eventi come il lancio dei Tomahawk di Trump sulla Siria che fonti ufficiali siriane dicono aver causato la morte di quattro bambini, e l’attentato terroristico di Stoccolma, abbiamo fatto poca attenzione a quello che si annunciava come l’evento della settimana: l’incontro di Mar-a-Lago tra i presidenti di Stati Uniti e Cina.
Eppure, se i primi due vanno amaramente considerati dei déja vu (trovate sulla mappa un posto al mondo che non sia stato bombardato dal governo degli Stati Uniti e meriterete un premio; l’imbecillità criminale del terrorismo islamista colpisce con regolarità) il faccia a faccia tra Pechino e Washington potrebbe rivelarsi novità assoluta foriera di conseguenze strutturali sul sistema internazionale, almeno a certe condizioni.
Al termine dei colloqui, nel brevissimo incontro con i giornalisti, Trump e Xi hanno con soddisfazione rilevato di essere entrati in sintonia e di voler lavorare insieme alla soluzione dei tanti problemi che hanno di fronte, sul piano bilaterale e sistemico. Trump, con lo stile emotivo che (purtroppo) lo contraddistingue, si è spinto sino ad affermare che “lots of very potentially bad problems will be going away”, con evidente riferimento alla questione coreana e a quella del commercio bilaterale (altrimenti, a cosa?). Xi, più contenuto, ha rilevato “l’impegno reciproco per comprendersi più in profondità”, affermando che “avevano costruito una fiducia, una preliminare relazione di lavoro e amicizia”. Benché manchino dettagli ufficiali su cosa ciò potrà in pratica significare, non può non ricordarsi quanto negativamente si fossero concluse altre uscite del neo presidente statunitense, ad esempio quella con la cancelliera tedesca Angela Merkel.
Se due grandi del mondo si danno moderazione e fiducia, mentre uno dei due con una mano sparacchia decine di missili nel Mediterraneo chiamando Dio a benedirlo e spiega all’ospite di essere pronto con l’altra a fare qualcosa del genere verso il suo alleato nord coreano, non si può che tirare un sospiro di sollievo e rallegrarsene. Aggiungendo sommessamente: purché duri.
Sul punto della durata, in conferenza stampa ha dato segnale positivo il presidente Xi Jinping quando ha affermato: “Credo che manterremo l’impegno a sviluppare in modo stabile la formazione di relazioni amichevoli …”. Aggiungendo, con la retorica che appartiene alle grandi potenze ideologiche come la Cina: “Per la pace e la stabilità del mondo, adempiremo pienamente alla nostra responsabilità verso la storia”. Il tutto con l’assenso di Trump: “Well, I agree with you 100 percent, Mr President”.
Richiamata la scenografia conclusiva del bilaterale, nessuno s’illuda che i due problemi di fondo della vigilia siano stati spazzati via dalla brezza di Mar-a-Lago, in quanto strutturali e quindi non rimuovibili se non attraverso misure strutturali delle quali non è apparso neppure il prodromo.
Visto l’attivismo sulla sicurezza del Trump di questi giorni, sembra che, il puzzle Nord Corea sia finito per diventare quello più rilevante tra i dossier cino-americani. In campagna elettorale era sembrato che il candidato repubblicano fosse soprattutto preoccupato della competizione commerciale cinese, ritenuta unfair e comunque penalizzante per gli interessi statunitensi.
Si spera non sfugga al presidente statunitense che la sindrome di solitudine e ostracismo, alla quale, nei mesi scorsi, ha fatto capire di voler condannare la Cina, non sarebbe pagante per Washington, D.C, che replicherebbe l’errore strategico compiuto dai successori di Bush padre con la Russia post sovietica: Pechino, come allora Mosca, ha bisogno di politiche di inclusione, non di più o meno velate minacce di accerchiamento politico-militare ed economico. Per la Cina la Corea del nord è alleato necessario, benché governato da una famiglia di sanguinari despoti. La caduta del regime non potrebbe che sfociare nella riunificazione del nord con il sud del paese, con la conseguenza che un altro importante regime dichiaratamente filoamericano verrebbe a costituirsi alle frontiere, in aggiunta a Giappone e Taiwan. Prospettiva comprensibilmente detestabile per Pechino.
L’unica via percorribile sarebbe quella di spostare sul piano multilaterale le crescenti tensioni nel teatro asiatico meridionale, nel segno dello sviluppo armonioso e fair del grande mercato transpacifico, del rafforzamento di strutture regionali come Asean e Apec, della garanzia di sviluppo per le immense masse asiatiche tuttora in cerca di garantirsi un futuro stabile.
E’ fare l’esatto contrario di ciò che Trump ha sempre detto.
Stupisce che la consapevolezza di come il bilateralismo statunitense abbia contribuito a stravolgere il possibile cammino della Russia verso la democrazia e il mercato, con le ricadute negative sull’Europa centro-orientale che conosciamo, non faccia comprendere che il processo simmetrico a quello dell’Europa orientale si sta innescando, con l’attuale presidenza statunitense, tra Cina e Pacifico. Per una conferma convincente, basti guardare a come siano tornati al bello i rapporti, in funzione antiamericana, tra Mosca e Pechino, dopo più di mezzo secolo di attriti anche bellicosi.
Messa così, le accuse trumpiane alla Cina di rubare lavoro americano con la sua produzione a minor costo passano in secondo piano, perché per la superpotenza statunitense, la sicurezza ha precedenza sull’economia.
Inoltre, ha rilevanza il fatto che nella competizione globale (promossa storicamente dagli Stati Uniti val la pena ricordare), il gioco può essere a somma zero (l’uno vince, perché l’altro sta perdendo), o consentire a tutti di risultare in qualche modo vincitori. Il win win incassa due ottimi vantaggi: soddisfa ogni contendente sul piano economico, non crea revanscismi sul piano politico. Sono vantaggi utili agli interessi americani.
Si obietterà, correttamente, che chi aspira alla supremazia non opterà mai per il win win. Il motto suprematista America First, mal si concilia con quel modello.
E però, voler riportare l’America ad essere la grande manifattura del mondo, non sa rispondere a un paio di domandine semplici semplici.
A quale prezzo competitivo gli Stati Uniti sarebbero in grado di produrre ed esportare i loro manufatti? Ovvero chi comprerebbe ai prezzi americani, soprattutto se, come Trump, ha detto e ridetto, il dollaro deve risalire ed imporsi? Di fronte a un atteggiamento unilaterale statunitense, i cinesi cosa farebbero dell’immenso credito finanziario in dollari (per giunta rivalutati) che vantano nei confronti delle istituzioni del debito sovrano statunitense?
Tutt’altro che favorevoli a Trump le risposte sensate alle due questioni. Davvero meglio ingegnarsi a far partire il meccanismo win win sul piano multilaterale, magari riportando gli Stati Uniti nel trattato di partenariato del Pacifico dal quale l’attuale presidenza si è ritirata.
A Mar-a-Lago, le parti si sono date cento giorni per ragionare insieme sulle rispettive posizioni nelle materie economiche e commerciali: potrebbe funzionare, questo almeno è l’auspicio che viene spontaneo, anche alla luce delle prime dichiarazioni del segretario al commercio Wilbur Ross.
Secondo Ross i cinesi si sono detti disponibili a ridurre i milioni di miliardi di deficit commerciale statunitense accumulato, anche perché l’eccesso di sbilancio significa sottrazione di beni ai cinesi per venderli all’estero e inflazione interna per il flusso esagerato di denaro circolante che le esportazioni generano.
Si può aggiungere, sull’incontro Trump Xi che, forse per la prima volta nella storia degli incontri bilaterali, nessuna autorevole parola americana sembra essere stata investita per sollecitare il dispotismo illuminato cinese ad allentare la presa del partito comunista sulla società civile, culturale e religiosa, lasciando più spazio al libero esprimersi della società, delle arti, del pensiero e delle opinioni.
Nelle piattaforme dei presidenti repubblicani questo genere di appelli è tradizionalmente poco appariscente; in quella del repubblicano anomalo Trump, risulta nullo. Eppure Trump avrebbe facilmente potuto spendersi sui diritti civili e delle libertà politiche, in vista del vicino diciannovesimo Congresso nazionale del partito comunista, Pcc, dove, quest’autunno, Xi cercherà il secondo mandato quinquennale.
Il fatto che l’America, nata e cresciuta liberale, non parli il linguaggio delle libertà di fronte al despota asiatico, dice molto sulla crisi della democrazia nella nazione americana. Dice molto anche sull’attuale debolezza che lo stato americano riflette verso l’esterno, almeno in Asia.
Xi è persona competente e preparata, scelto attraverso processi di selezione maniacale che molto devono al culto di Confucio per l’autorità autorevole, più che ai principi marxisti o maoisti. Gode di grande consenso in una nazione in cerca di riscossa sulla storia, che esprime tuttora la sua fase di ascesa. Si è fatto molti nemici nelle alte sfere del partito, e molti amici tra il popolo per la sua lotta alla corruzione.
Trump, in quanto a consensi, documenta il peggiore avvio di presidenza mai registrato da quando esistono i sondaggi d’opinione: rispetto al collega cinese appare incompetente, rozzo, istintivo, e con ambigui legami con le fortune finanziarie. Al tempo stesso, il potere americano in Asia dà l’impressione di perdere colpi rispetto a Cina e Russia, e il ritiro dal partenariato che Obama aveva costruito, conferma l’opinione, lasciando immaginare addirittura un paese in ritirata che si rinserra sulla difensiva, incapace di guidare il progetto che aveva generato.
Sollecitare Xi, dall’alto della storia americana, alle libertà individuale, ai diritti civili e al rispetto della persona umana, avrebbe dato più spessore a chi, nel bilaterale, era chiamato a rappresentare non solo gli interessi ma i valori americani nei confronti dei popoli asiatici amici.