Giunto quest’anno all’11ª edizione, il Festival dell’Economia di Trento (che La Voce di New York segue fin dalla nascita della testata) si è confermato uno degli appuntamenti chiave dell’Italia estiva. Cinque i ministri presenti, Boschi, Gentiloni, Poletti, Padoan e Calenda, due i direttori di banche centrali, Visco e il collega francese Villeroy, un nobel, Spence, ma anche molte altre personalità del mondo dell’impresa, della cultura, della politica, dalle archistar Botta e Gregotti, al presidente dell’Autorità anticorruzione Cantone, dai governatori Maroni e Serracchiani, che hanno discusso di autonomie territoriali con il presidente della Provincia autonoma di Trento Rossi, al presidente dell’INPS Tito Boeri, da sempre anche direttore scientifico della kermesse di Trento.
Quest’anno il tema scelto dagli organizzatori è stato “I luoghi della crescita”. Un tema utile per riflettere sulla dimensione territoriale dello sviluppo, alla vigilia di una riforma costituzionale che dovrebbe trasformare il Senato in una “camera delle regioni”, ma nel contesto di un impianto più centralistico rispetto al passato (del resto, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, del 2001, e fatta eccezione per regioni e province autonome, la spinta federalista in Italia si è fortemente contratta). Ma il carattere territoriale della crescita, e soprattutto i problemi generati dagli squilibri fra una sponda e l’altra del Mediterraneo, sono temi che hanno consentito di affrontare anche un altro argomento molto urgente: quello delle migrazioni internazionali. Farlo in Trentino, ovvero a ridosso del confine del Brennero, dove l’Austria ha appena finito di installare una nuova barriera per gestire (leggasi bloccare) il flusso dei profughi provenienti dall’Italia, aveva certamente il suo peso.
Nella quattro giorni del Festival, dunque, sono stati diversi i momenti dedicati ai migranti, conformemente ad una tradizione che vuole da sempre il Festival dell’Economia attento alle problematiche riguardanti lo sviluppo “diseguale” (ampio spazio è stato dato in passato all’Africa, ma anche alle voci di economisti come Amartya Sen, molto critici verso le tradizionali ricette neoliberali, che hanno a lungo dominato la scena mondiale).
In generale, a Trento si sono ascoltate soprattutto voci che invitano a gestire le migrazioni e non a respingerle. Ha inaugurato questa linea Innocenzo Cipolletta, attualmente presidente dell’Università di Trento, un passato anche in Confindustria, al Sole 24 Ore e alle FFSS: “Dobbiamo tenere presente – ha detto nel corso della cerimonia di apertura – che spesso quelli che emigrano non sono i più diseredati, ma i più intraprendenti. Persone che hanno superato ostacoli fortissimi per migliorare le proprie condizioni di vita, e che possono essere una risorsa anche per i paesi che le accolgono. In fin dei conti è quello che è successo negli Stati Uniti d’America. Gli immigrati hanno creato attività, imprese. Perciò queste persone possono venire da noi, soprattutto se noi sapremo investire su di loro. Costruendo case, scuole, non campi di concentramento. Investendo in personale italiano per formarle. In questo modo possiamo avviare un ciclo che verrà anche a nostro vantaggio”.
Le migrazioni, però, stanno mettendo in crisi le leadership europee. Ne ha parlato il ministro degli Esteri Gentiloni, per il quale “la questione è esplosiva dal punto di vista politico. Ricordo che un anno fa in Austria il cancelliere Faymann aveva espresso sul tema posizioni molto coraggiose. In pochi mesi tutto è cambiato. La discussione attorno al Brennero sfiora l’assurdità. I flussi migratori attraverso quella frontiera negli ultimi mesi sono addirittura diminuiti. La situazione dunque è assolutamente normale, eppure la politica la trasforma in esplosiva. È importantissimo che la cancelliera Merkel abbia detto che la chiusura del Brennero porterebbe alla fine dell’Europa. Attenzione: questo tema è molto presente nella stessa campagna elettorale americana, anche se il saldo alla frontiera fra USA e Messico ormai è a zero se non leggermente favorevole all’uscita dagli USA. Eppure Trump ne ha fatto un punto centrale della sua campagna. intanto Obama ha indetto una conferenza internazionale nel corso della quale ogni paese dovrà dichiarare quanti profughi siriani è disposto ad occupare. È quello che in Italia si è iniziato a fare con i canali umanitari aperti dalla Comunità di Sant’Egidio. Anche il Canada ha aperto le porte ai corridoi umanitari. Se continuiamo su questa strada, il problema potrà essere gestito e potrà esprimere anche potenzialità positive, specie per paesi in forte crisi demografica”.
Il tema è stato ripreso da Adriano Prosperi, emerito di Storia moderna presso la Normale Superiore di Pisa, per il quale un legame fra migrazioni e sviluppo sembra esserci, a leggere con attenzione diversi fenomeni storici: ad esempio l’impulso dato alla crescita commerciale di Livorno dagli ebrei esuli dalla Spagna dopo la cacciata del 1492, o il contributo degli ugonotti espulsi dalla Francia allo sviluppo tecnico di particolari lavorazioni d’avanguardia, come gli orologi a Ginevra e a Erlangen. Sembrerebbe insomma che dove non si è innalzata la barriera della violenza religiosa e dove sovrani saggi o libere città hanno protetto i migranti dall’Inquisizione, si siano sviluppate vere e proprie “isole” di tolleranza e di progresso. Gli sforzi che gli Stati dell’Europa sono chiamati a compiere per favorire l’integrazione, dunque, in futuro potrebbero essere ripagati, anche sul piano economico.
La realtà tuttavia mostra per ora reazioni di segno opposto. Si parla spesso, troppo spesso, di “invasione”, anche se i numeri non giustificherebbero questi toni. I profughi oggi nel mondo sono circa 60 milioni. Due terzi di essi sono “profughi interni”, vivono cioè all’interno dei loro paesi, o nelle aree confinanti dei paesi limitrofi: parliamo di paesi certamente meno ricchi dell’Europa, come Giordania, Sud Sudan, Colombia, Egitto e così via. L’Europa trema per le “invasioni” che starebbe subendo, ma i dati dicono questo: nel 2015 sono arrivate in Italia 153.000 persone. Poco più di un milione in Europa. Quest’anno, ad oggi, siamo più o meno sugli stessi livelli. Sono numeri importanti ma non sono tali da giustificare la creazione ex-novo di barriere.
Del resto, ha ricordato Federico Soda, direttore dell’ufficio per il Mediterraneo dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, l’Africa raddoppierà la popolazione nei prossimi trent’anni, mentre gli effetti dei cambiamenti climatici metteranno ulteriormente in difficoltà la sua agricoltura. “Tutta la forza lavoro che si riverserà sul mercato del lavoro non sarà mai assorbita dalla crescita economica del Continente, anche se essa seguisse il modello cinese, il che non è affatto detto. In Africa esistono già ora fortissimi flussi di manodopera, verso alcuni poli di attrazione come il Sud Africa o il Nord Africa. Che l’Europa si spaventi per circa un milione di persone è francamente imbarazzante”.
Insomma, dobbiamo prepararci. Carlotta Sami, portavoce dell’alto commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati nell’Europa meridionale, ha ricordato come la risposta alle migrazioni generate dai conflitti e dalle persecuzioni implica la capacità di mettere in campo soluzioni politiche molto problematiche (abbiamo già visto a cosa portano interventi militari affrettati come quello avvenuto in Libia, per non dire della sciagurata seconda Guerra del Golfo voluta dal duo Bush-Blair), la risposta alle migrazioni economiche passa per forza per l’apertura di canali di emigrazione legali. Detto questo, oggi non esistono canali legali per emigrare, neanche per i richiedenti asilo politico. La situazione in Europa è quindi per certi versi anche peggiore rispetto a quella esistente un secolo fa, all’epoca delle dittature, quando gli esuli (ad esempio gli antifascisti italiani) trovavano accoglienza in paesi europei democratici. Devono dunque essere cambiate le regole e deve diffondersi la consapevolezza che questo problema riguarda tutti, che va affrontato congiuntamente.
Ma a Trento c’è stato anche spazio per tesi più “forti”. Ad esempio quelle di Stefano Allievi e Giampiero Dalla Zuanna, entrambi docenti alla Facoltà di Sociologia dell’Università di Padova, che in un libro appena uscito per Laterza spiegano come il mancato accoglimento dei profughi da parte dell’Italia potrebbe essere addirittura economicamente dannoso. Mettendo a confronto i dati demografici, risulta infatti che la forza lavoro in Italia nella fascia d’età tra i venti e i sessantaquattro anni dal 2015 al 2050 perderà dalle 300.000 alle 350.000 unità all’anno. Questo comporterà gravi conseguenze anche per il sistema pensionistico. I dati dicono anche che le perdite corrispondono più o meno agli arrivi di immigrati in Italia; nei prossimi vent’anni, per mantenere costante la popolazione in età lavorativa, dovranno quindi entrare in Italia 325.000 potenziali lavoratori all’anno. La sfida è quella di offrire loro opportunità lavorative, con un concorso di interventi ad hoc: formazione, certo, ma anche accelerazione delle pratiche burocratiche.
Spazio infine nei dibattiti all’Accordo di Dublino, fortemente criticato. Come noto, l’accordo prevede che i richiedenti asilo vengano registrati nel primo paese di arrivo (generalmente Italia o Grecia) e lì rimangano fino a che la loro pratica non è stata evasa. Gli Stati membri dell’Unione europea devono dotarsi di un nuovo meccanismo, più bilanciato, basato su nuovi criteri di distribuzione (individuabili nel PIL, numero di abitanti e tasso di disoccupazione del Paese ospitante), oltre a riconoscere al profugo la possibilità di esprimere quantomeno la propria preferenza sul Paese di destinazione. In questo senso l’Unione europea, stimolata dall’Italia, si era impegnata lo scorso autunno a redistribuire una prima tranche di circa 160.000 profughi. Nei fatti si sa come è andata: finora solo 7.000 di essi sono stati “ricollocati”, Insomma, la volontà di cooperare, all’interno della UE, ancora latita.