Dopo decenni di profonda impopolarità presso l’opinione pubblica, l’economia è diventata oggi una disciplina all’ultima moda. Tutte le notizie relative ai fatti economici trovano subito una eco profonda nell’opinione pubblica e sono riprese dai principali media. L’andamento delle borse internazionali viene seguito con la stessa intensità emotiva dei risultati sportivi. Gli economisti più celebri sono ormai delle star, ospiti delle più importanti trasmissioni televisive ed autori di bestseller.
Eppure, in un momento di turbolenza economica non comune per intensità e durata, è oggi più difficile che mai capire cosa stia davvero succedendo, cosa si può fare per tornare ad avere un’economia che cresca in maniera stabile, e possibilmente come garantire che i benefici di tale crescita siano distribuiti un po’ più equamente di quanto non siano ora. La scienza economica non sembra aiutarci in questo senso: basta prendere una questione a caso e quasi inevitabilmente si troveranno due economisti, altrettanto autorevoli, che esprimeranno posizioni opposte. La cosa acquista un aspetto quasi comico quando a fare ciò sono economisti vincitori del Premio Nobel per l’Economia, consultati ormai da media e governi in modo quasi oracolare.
Per dare un titolo a questa mia rubrica ho scelto allora un aforisma del mio amato concittadino Ennio Flaiano: certo, certissimo, anzi probabile – mi sembra che non ci sia modo migliore di esprimere la confusione degli anni in cui viviamo. Così come su ogni altro argomento, non ci saranno probabilmente due economisti che avranno la stressa opinione sul perché l’economia faccia oggi così fatica ad aiutarci a comprendere la realtà che viviamo (per non parlare del prevederla), e anzi tra quegli stessi due economisti ce ne sarà magari uno che affermerà convinto che l’economia non è mai stata tanto scientificamente fondata e affidabile come oggi. Per quanto mi riguarda, credo che uno degli aspetti più interessanti – e più utili – per ridare senso ad un ragionamento sull’economia sia riflettere sul modo in cui essa ha saputo (o meno) cogliere alcuni aspetti fondamentali della natura umana. Il senso comune vuole che l’economia debba occuparsi dell’homo oeconomicus, ovvero di un soggetto ideale che nell’effettuare le proprie scelte fa riferimento soltanto al proprio tornaconto individuale opportunamente definito, e che qualunque idea alternativa sulle motivazioni che spingono gli esseri umani ad agire nella sfera economica non possa che essere un wishful thinking destinato ad essere smentito dai fatti.
Il predominio dell’auto-interesse nelle scelte economiche nasce come una caratterizzazione positiva della natura umana (“gli esseri umani sono fatti così”), ma acquista rapidamente una valenza normativa (“chi non fa così nell’arena economica è spacciato”), diventando una classica profezia che si auto-realizza. Sembra quasi che oggi chi non agisca in conformità ad una logica evidente di auto-interesse debba giustificarsi. Eventuali comportamenti non del tutto auto-interessati o persino generosi suscitano quasi sospetto: ci deve essere una ragione “più profonda” che spinge a comportarsi in quel modo, e soltanto quando si riesce a trovare una giustificazione che evidenzi un tornaconto personale ci si dà finalmente pace, solo allora quel comportamento ci appare psicologicamente ‘verosimile’.
Ma è davvero così? Siamo davvero sicuri che l’antropologia dell’homo oeconomicus ci descriva al meglio, e soprattutto ci sia davvero utile per capire ciò che accade nella sfera economica, e soprattutto cosa può essere fatto per promuovere la crescita e il benessere? Come si potrà intuire, io credo proprio di no. E quindi in questa rubrica proveremo a vedere insieme come non soltanto un altro modo di intendere l’economia e le scelte economiche sia possibile, ma che, provando a capire meglio come la natura umana si relazioni davvero a tale mondo e a tali scelte, si aprano delle possibilità piuttosto interessanti. Ma questo lo giudicherete voi.