Quando ci invitano alle conferenze, noi ascoltiamo, prendiamo appunti, anche se poi il lavoro frenetico e giornaliero porta spesso a doversi affidare ai “press”, i comunicati dati dalle agenzie di pr che curano l’evento. Semplicemente manca il tempo per tornare sul taccuino, risentirsi una registrazione, e insomma si finisce per dare solo l’impronta voluta dagli “spin doctor”.
Quando lunedì, 11 gennaio, eravamo all’evento organizzato dall’ICE, ospitato nelle grandi sale del Bloomberg Headquarters sulla Lexington Avenue, e intitolato “Italy Now: Investment, Opportunity, Impact”, abbiamo capito subito che, anche a costo di arrivare “ultimi”, non avremmo disciplinatamente ripubblicato solo il “press”. Al massimo quello ci sarebbe servito per non sbagliare i nomi.
Dunque, con il viceministro per lo sviluppo economico Carlo Calenda, al road show da Bloomberg, partecipava anche il presidente della Cassa di depositi e prestiti Claudio Costamagna, che ha illustrato il ruolo strategico di CDP nel processo di attrazione degli investimenti in Italia svolto in sinergia con Unicredit, rappresentata dal Global Chief Economist Erik Nielsen. C’era anche il presidente dell’Istituto per il commercio estero Riccardo Monti e l’ambasciatore italiano negli Stati Uniti Claudio Bisogniero. A coordinare i lavori il direttore dell’ICE di New York, Maurizio Forte.
Alla tappa di New York – la missione italiana in cerca di investitori si sarebbe poi trasferita il giorno dopo in California – era stata annunciata giorni prima anche la presenza di John Elkann della FCA (Fiat+Chrysler), che avrebbe dovuto colloquiare con Jeff Immelt, CEO della General Electric e rispondere alle domande di Stephanie Ruhle, Managing Editor & Anchor, Bloomberg TV. Elkann non si è visto, come neanche il pezzo grosso della GE. Così al suo posto è intervenuto l’industriale del caffè Andrea Illy, che di aneddoti interessanti da riferire ne aveva eccome, dato che guida un gioiello di azienda che esporta il 70% del suo magnifico prodotto.
L’intervento chiave quindi quello del viceministro per lo sviluppo economico Carlo Calenda, e in una sala piena di potenziali investitori americani e anche tanti giornalisti, speriamo di non essere stati poi così pochi a “sorprenderci”. Non ci ha colpito il contenuto dell’intervento del vice ministro, alquanto prevedibile. Quello che ci ha intristito sono stati i toni e le considerazioni di Calenda nel descrivere l’Italia che cambia e che qui di seguito vi riporteremo.
Calenda ha usato toni che su La VOCE di New York, finiamo per interpretare con questo titolo: “Felicità nella svendita dell’Italia”.
Perché su una analisi in cui si fornivano cifre che confermerebbero come l’economia italiana sia finalmente in ripresa, dando tutti i meriti alle riforme in progress attuate dal governo Renzi, ecco che è prevalso anche un esagerato ardore “pro business” che magari serviva a far dimenticare, ai potenziali investitori americani, che chi parlava rappresentava ancora un governo di centro-sinistra (o non è il Pd il maggior partito della sinistra italiana?). Ma neanche ai tempi di Berlusconi e di Tremonti, in eventi simili, avevamo sentito ripetuti appelli al “cambiamento culturale” degli italiani con un tono così “entusiastico” come lo abbiamo ascoltato da Calenda.
Noi abbiamo a cuore le sorti economiche dell’Italia, e chi ci conosce leggendo questo giornale sa bene che troveremo sempre lo spazio per difendere gli eroici imprenditori e tutte quelle imprese italiane che con coraggio esportano il prodotto Made in Italy e reggono con il loro incredibile e geniale lavoro le sorti dell’economia italiana e lo status del Bel Paese nel mondo. Ci viene quindi difficile accogliere e condividere questo tono trionfante di Calenda, per annunciare che cosa poi? Quella che secondo noi equivale ad una disfatta. O forse bisognerebbe chiamarla in altro modo la svendita delle aziende italiane al miglior offerente nel mondo?
Saremmo all’antica, ma non riusciamo ad essere contenti né ad apparire di esserlo, quando Calenda dice agli americani venite venite e comprateci tutte le aziende italiane che volete, non vediamo l’ora che le compriate, e mi raccomando soprattutto “le champions del made in Italy”. E che nessuno si lamenti, perché, secondo il vice ministro di Renzi, “non si può chiedere di investire in Italia e poi non voler vendere le aziende italiane…” Ma davvero? Bisogna per forza vendere il capitale di controllo di queste aziende? Siamo messi proprio così male?
Il capo dell’ICE, Riccardo Monti, un manager sveglio che abbiamo già ascoltato in passato, ai margini dei lavori ha annunciato ai giornalisti una notizia “incoraggiante” – anche se abbiamo notato come nell’espressione in viso non avesse l’umore trionfante di Calenda: nel 2015 gli investimenti diretti stranieri in Italia, stando a stime preliminari e in attesa di dati ufficiali che arriveranno tra qualche mese, sarebbero raddoppiati a circa 30 miliardi di euro rispetto all’anno precedente. Felici? Ci mettiamo a ballare? Nel Titanic suonava l’orchestra, ma non ci risulta che i passeggeri ballassero. Sono infatti investimenti che starebbero ad indicare, secondo noi, praticamente la svendita dell’industria italiana, e anche un book distribuito in sala indicava tutte le cifre sulle “appetitose” aziende che nei vari settori, dal food alla moda, dai motori al turismo, sono disposte, pur di ricevere investimenti, a cedere il controllo totale.
Perché tutti questi saldi e di corsa? A quanto pare per colpa del sistema creditizio italiano: quelle banche che, seppur malamente, avevano in passato supportato il sistema finanziario delle aziende italiane non funzionano più, il sistema si è inceppato, per competere nella global economy ci vuol ben altro. E allora tra la chiusura e l’andata in malora di miglia di posti di lavoro e la svendita al capitale straniero, ben venga la seconda soluzione…
Messi difronte all’alternativa della chiusura, uno potrebbe pure alzare le braccia in segno di resa: ma bisogna gioirne? No, quella è roba da spin doctor, noi ci ostiniamo a fare i giornalisti. Ma una domanda è rimasta in sospeso: non si potrebbe trovare un modo di far finanziare le imprese italiane anche da capitali esteri senza per questo cederne il controllo? Che ne sarà di un sistema produttivo come quello del Made in Italy, che a quanto pare continua a far faville nell’export con cifre record, ma che ora deve essere venduto all’estero per attrarre i finanziamenti adatti a restare competitivi e crescere? Perché si è lasciato distruggere un sistema bancario (esempio Monte dei Paschi di Siena) che durava da secoli? Che ne sarà del Made in Italy di quelle aziende che avranno i consigli di amministrazione a Houston o Shangai?
La missione del vice ministro Calenda era di offrire le aziende italiane agli investitori esteri, e nella sua presentazione ha usato frasi ad effetto: “Non troverete un governo italiano precedente che ha fatto riforme più pro business di quelle che ha fatto Renzi”. Bene. Ci mancherebbe se ad una audience americana non occorra dire viva il business, anche se forse non suona poi così tanto “cool” nel 2016, anno in cui un senatore socialista del Vermont di nome Bernie Sanders nell’insidiare per la nomination democratica per la Casa Bianca Hillary Clinton, costringe anche lei a inveire contro Wall Street. Anno in cui la statuetta dell’Oscar, magari, verrà assegnata a The Big Short.
Ma torniamo al nostro Calenda: la soluzione pro-business significa l’investimento straniero che si compra il controllo delle aziende italiane? Sarà pure pro-business, ma siamo sicuri che sia anche pro-Italia? Potrebbe avvenire lo stesso tipo di presentazione che abbiamo ascoltato da Bloomberg, con ministri della Francia o della Germania, che dopo la vendita ai cinesi dell’equivalente di una Pirelli, si mettono a far festa dicendo venite e compratevi il resto?
Calenda ha spiegato agli americani che quello che mancava in Italia negli ultimi anni era la domanda interna. Ora è importante questa domanda, ci dice, “perché il mercato italiano è molto ricco. Ma per colpa dell’outlook negativo, gli italiani per troppo tempo hanno risparmiato invece di consumare”. Risparmiare invece di consumare? Ma una volta non si diceva che la ricchezza italiana risiedeva proprio nelle capacità del risparmio? Un popolo che non consumava fino a indebitarsi come gli altri, ma “bilanciava” i consumi col risparmio? Secondo Calenda avrebbe risparmiato fin troppo. “Ora abbiamo un recupero nei consumi, anche se ancora in uno stato preliminare”. E già, forza italiani spendete spendete e indebitatevi, soprattutto poi se i prodotti che comprate saranno sempre meno di proprietà italiana.
Calenda ha ricordato agli americani come, seppur conosciuti più per le tre F, “Fashion, Food, and Furniture”, il settore più importante per l’esportazione italiana resti la meccanica. “Noi vendiamo più di 100 miliardi di meccanica nel mondo” e questo è importante non solo per la cifra ma anche perché la leadership in quel settore “trasporta” tutti gli altri: “Noi sappiamo come produrre ciò che serve per produrre”. Ma Calenda poi fa l’esempio della moda, che non va bene, rispetto a quella francese, “anche se poi è l’industria italiana che fornisce le imprese di moda francese”. Che fare? Bisogna che ve la compriate voi americani la moda italiana e la facciate diventare finalmente grande: “La nostra industria nella moda non ha quella forza finanziaria e alle volte anche la cultura per creare global brands allo stesso modo di quella francese…”.
Ecco che qui entrano in gioco gli investitori esteri e ci spiega Calenda: “Trasformare queste piccole-medie compagnie italiane che hanno una ottima produzione e anche un buon brand ma che non sono in grado da sole di diventare globali”. Quindi gli investitori esteri sono “benvenuti”, per comprare queste aziende e farli diventare dei “marchi globali”, anche se a costo di trasferire il loro controllo oltre oceano.
La situazione italiana è strana, ha ricordato Calenda, “nel gdp cresciamo solo dello 0,8 per cento, quando invece le nostre esportazione crescono al 3,6%”. Questa situazione ci porta alta disoccupazione. Perché avviene questo? “Perché abbiamo ancora un ambiente ostile al business” Calenda continua a ripetere agli americani. “Ci sono imprese italiane che nel passato sono cresciute nonostante tutto quello fatto dai governi per impedire la loro crescita”. Questo poteva, dice Calenda, anche aver funzionato per certe imprese, “ma non per il paese”.
A questo punto il vice ministro di Renzi ha cominciato a spiegare le riforme istituzionali, perché “voi manager sapete bene che senza un governo è quasi impossibile poter condurre del business”.
In Italia c’era, dal punto di visto politico, “molta instabilità e molta burocrazia”. Per questo “per il premier Matteo Renzi questa battaglia diventa cruciale, non solo dal lato politico ma per le ragioni economiche”. Quindi, informa Calenda gli americani, abbiamo una legge elettorale che finalmente aiuterà il partito “che vince le elezioni a governare. Il partito, non la coalizione, che è stata la ragione per tanta instabilità”. E dopo la legge elettorale, ecco anche la legge sul bicameralismo, “che era un grande problema. Due camere che facevano esattamente la stessa cosa e rallentavano il processo legislativo. Quindi il nuovo Senato non voterà più il voto di fiducia al governo e neanche il budget”. E poi il federalismo, l’amministrazione decentralizzata dell’amministrazione italiana che doveva servire a semplificare e invece ha duplicato funzioni rallentando di nuovo tutto.
Ora secondo Calenda, “queste riforme stanno avvenendo con il grande consenso degli italiani….”. Davvero? Ci sono state le elezioni in Italia per un forte mandato a Renzi e non ce ne eravamo accorti?
Poi eccolo Calenda annunciare agli americani venuti ad ascoltarlo nella sede di Bloomberg “la riforma più importante” per i possibili investitori: “Il jobs act”. Quello che è molto importante per Calenda, è “l’aspetto culturale” della riforma. “Vi faccio un esempio del perché è culturale: Il governo Monti, riuscì in una notte a portare avanti la riforma delle pensioni, ma non riuscì mai a fare quella sul lavoro. Questa era la riforma più difficile, perché dietro c’era ancora l’approccio che si dovesse proteggere l’impiegato dal datore di lavoro, l’idea che tra i due non ci sia una partnership ma una conflittualità”. Il governo Renzi sarebbe già riuscito a cambiare “la cultura” del rapporto tra il proprietario dell’impresa e di chi ci lavora? Un vasto programma, non c’è che dire…
E poi politica fiscale, riforma delle banche, riforma del regime fallimentare…Liberalizzazioni, nei trasporti, nel settore finanziario, nelle settore farmaceutico… Tutto per poter finalmente attrarre gli investitori esteri. Ascoltate Calenda:
“Stiamo smantellando un sistema che ha più di quaranta anni. Una burocrazia ostile al business. E’ quindi una battaglia culturale. E’ un lavoro di riforma, ma anche c’è un processo da compiere che prende tempo. Eppure l’opportunità per l’investitore estero è veramente chiara quest’anno. Il problema è che quando si vuol procedere, quando si vuol aprire un contatto magari per investire in una azienda media di moda, ecco che stabilire solo quel contatto già diventa difficile. Ecco perché pensiamo che ci sia bisogno del supporto del governo. Per questo abbiamo prodotto anche un ‘book of offers’, con imprese che si aprono all’investimento dall’estero. Noi abbiamo un team qui a New York che vi può aiutare a stabilire i contatti. Noi sappiamo che la strada da percorrere è ancora molto difficile, ma come governo abbiamo già fatto più di chiunque altro precedente. E sappiate che noi lo abbiamo fatto, e per la prima volta, da una prospettiva totalmente ben disposta nei confronti del business. Perché sappiamo che senza il business, che crea sviluppo e crescita, non ci potrà essere uno stato capace di farlo”.
Ed ecco la chiusura ad effetto del viceministro per lo sviluppo economico:
“Quindi noi siamo qui perché vogliamo un grande flusso di investimenti privati dagli USA, venite e comprate anche i campioni del Made in Italy. Perché attraverso la vera partnership, tra capitale e know how, capacità e mercati possiamo costruire una vera alleanza”.
Un vice ministro che parla bene l’inglese e che prova ad attrarre gli investitori americani, si può anche ringraziare per il lavoro che sta facendo. Ma quando ripete “stiamo cambiando la cultura”, tra imprenditore e lavoratori, con il primo che non dovrebbe essere più “ostaggio” dei dipendenti, tradotto dall’inglese, per noi significa solo una cosa: licenziare in Italia sarà facile, e assumere ad un costo del lavoro più competitivo ancora più facile. Venite signori, venite, comprate in Italia, ora sì che conviene…
Applausi alla fine dell’intervento. Domande per chi ha ascoltato? Hanno detto che non c’era tempo.
“Putesse essere allero” cantava il grande Pino Daniele. Magari si potesse, ma proprio non ci riusciamo ad essere allegri dopo averlo ascoltato Calenda da Bloomberg. Ci rendiamo conto che le alternative alle vendite sono più difficili e ormai scarse, ma la “svendita” dell’industria Italiana, vista da New York e da italiani, non ci viene che accoglierla con tantissima tristezza.
Dallo show di Calenda sull’Italia visto da Bloomberg qualcosa di positivo è rimasto. Almeno nell’occasione c’è stata la firma di un memorandum d’intesa, tra General Electric Avio, rappresentata da David L. Joyce, President & CEO, GE Aviation e il Ministero per lo Sviluppo Economico rappresentato da Calenda. Un accordo che vedrà il gruppo americano investire 200 milioni in ricerca e sviluppo in tre regioni della penisola, Piemonte, Campania e Puglia. Accontentiamoci. Gli americani, dopo tutto, non mangiano i lavoratori. Poi, figuriamoci, se Bernie Sanders dovesse, dopo l’Iowa e il New Hampshire, fare ad Hillary quello che capitò ad Obama…