Come ogni estate, anche quest'anno nelle campagne del Sud Italia alcuni braccianti agricoli sono morti di fatica. Sfiancati da 12/14 ore di lavoro nei campi, le vittime sono state quattro: tre uomini africani e una donna italiana. Soltanto in conseguenza della morte di quest'ultima, i media hanno acceso i riflettori sul fenomeno caporalato, richiamando l'attenzione delle istituzioni politiche quasi si trattasse di una novità. Sebbene da oltre più di trent'anni il lavoro agricolo sia controllato e gestito dai caporali, l'interesse della politica è sempre minimo, come se l'Italia non fosse un paese agricolo e come se l'intermediazione di manodopera non fosse un reato.
A seguito del fatto che quest'anno ci si è accorti che anche gli italiani muoiono di sfruttamento perché le condizioni di lavoro in agricoltura sono al limite dello schiavismo, il Governo Italiano ha quindi provato a dare ascolto alle numerose denunce che sindacati, associazioni non profit e centri studi propongono e ripropongono con esemplare costanza e pazienza ogni anno, e ogni qualvolta accadono episodi di questo genere.
Per coloro che non ne avessero memoria, oppure fossero talmente giovani da non averne mai sentito parlare, il caporalato è una parola gergale con cui viene definita l'attività di intermediazione nel lavoro agricolo. Vietata espressamente dalla legge, quest'attività è radicata: per così dire, è il tratto distintivo della maniera attraverso la quale le aziende agricole italiane (e appositamente non mi limito a fare riferimento esclusivamente a quelle del Mezzogiorno) operano. Praticamente delegano l'attività di raccolta a degli intermediari che, di fatto, ricordano i "padroni" delle lotte bracciantili di Giuseppe Di Vittorio. Sono i caporali a decidere il prezzo dell'ingaggio. Sono i caporali a "selezionare" i braccianti. Sono i caporali a stabilire quanto ore dura una giornata di lavoro. Quindi non si tratta solo di lavoro nero, ma anche della determinazione delle regole del mercato agricolo: prezzi, quantità, e giornate di lavoro sono condizioni che gli imprenditori agricoli permettano siano decise da chi lucra sulla pelle dei braccianti, sfruttando il bisogno di lavoro sia degli immigrati – molti dei quali con regolare permesso di soggiorno – sia dei contadini italiani.
Se si considera quanto il settore agricolo sia significativo per l'economia italiana, non è difficile calcolare il giro d'affari che il caporalato sviluppa. Un giro d'affari che ha perso la dimensione locale e che ha dato vita al cosiddetto processo di "globalizzazione delle campagne". In estrema sintesi, la criminalità organizzata, che da qualche anno reputa conveniente investire i proventi molti dei suoi traffici illeciti nelle attività agricole, ha sviluppato una rete per il controllo del flusso dei braccianti immigrati che stagionalmente vengono impiegati nelle raccolte di frutta e ortaggi. Le agromafie – è questa l'esatta definizione – controllano i flussi di braccianti che viaggiano in Italia spostandosi a seconda delle necessità delle colture: nella stagione estiva sono in provincia di Foggia per raccogliere i pomodori; in autunno in Calabria e Sicilia per arance e mandarini; in inverno in Trentino per le mele.
Proprio la "globalizzazione delle campagne" ha spinto l'Europol a indagare e, ad esempio, a definire la provincia di Foggia un criminal hub dove transitano i soldi ricavati con il traffico di stupefacenti nei Balcani e da dove ripartono – risciacquati – i capitali da reinvestire nei paesi del Nord Europa.
Naturalmente l'interesse della criminalità per l'agricoltura dipende dalla immensa disponibilità di manodopera: il costo orario di un bracciante nero vale appena 2 euro! Inoltre, considerato che le Forze dell'Ordine italiane "tollerano" la presenza di accampamenti spontanei – veri e propri ghetti – dove gli stessi caporali alloggiano a pagamento i braccianti, si comprende la portata del business. Un business di cui in Italia si parla solo se "ci scappa il morto".
Così come è sconcertante constatare che in Italia questo dramma sia considerato "poca cosa", è altrettanto sconcertante rilevare che il Governo italiano- nelle persone dei Ministri dell'Agricoltura (Martina) e del Lavoro (Poletti) – soltanto la scorsa settimana ha deciso di assumere delle decisioni. Ed è sconcertante in quanto, con il tipico approccio meramente programmatico, le decisioni hanno riguardata soltanto la istituzione di una "cabina di regia" e la generica invocazione di maggior controlli.
Lo scetticismo rispetto a ciò che il Governo ha proposto deriva da una valutazione sulla inidoneità dello strumento "cabina di regia" per la soluzione di questo problema. Seppure importante, la portata internazionale degli interessi economici che ruotano intorno al caporalato necessita di misure più dirette, coraggiose e, dunque, realmente incisive. Sarebbe ora che il piano delle intenzioni cedesse il passo ad interventi concertati tra tutti gli organismi deputati ai controlli: INPS, Ispettorati del lavoro, Guardia di Finanzia e Forze dell'Ordine nazionali ed europee. Controlli da effettuare con costanza e continuità, per provare ad assestare un colpo ad organizzazioni che ormai hanno interesse radicati, che si intersecano perfettamente con quelli legati al traffico degli immigrati clandestini. Caporali e trafficanti di immigrati clandestini lavorano in tandem e quindi occorrono politiche in grado di sviluppare strategie di contrasto sostenute da chiari obiettivi politici, tanto rispetto al problema della gestione ed accoglienza dei flussi di immigrati, quanto rispetto ai danni che a livello macroeconomico le agromafie recano all'economica non soltanto italiana ma europea (la provincia di Foggia, con i suoi 550 mila ettari di terreni coltivati, è la più agricola d'Italia e produce il 90% della produzione mondiale di pomodoro pelato).
Il rischio, dunque, è che, finita la "notiziabilità" delle morti bianche, la "cabina di regia" si limiti a produrre qualche documento, non prima naturalmente di aver nominato una pletora di esperti e consulenti. Non sarebbe la prima volta e magari non farebbe neanche clamore. D'altronde noi italiani siano abituati a credere solo a ciò che vediamo. Secondo un pessimo costume nazionale, quando una cosa non è tangibile non esiste. Cosicché anche se si sa che esiste, viene rimossa e "risolta" delegando ad altri la responsabilità. Proprio su questa delega le agromafie costruiscono le loro fortune e allargano ogni giorno di più il loro raggio d'azione.
*Fiammetta Fanizza, sociologa presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Foggia, ha svolto ricerche inerenti le relazioni industriali, i sistemi di welfare e le politiche di sviluppo locale. Nell'ambito delle sue ricerche sul rapporto tra morfologia dei territori, patrimoni architettonici e connotazione identitaria dei paesaggi si è occupata del fenomeno della segregazione dei braccianti agricoli in provincia di Foggia. A tale riguardo ha pubblicato numerosi articoli e saggi, tra cui 'Lo smantellamento del gran ghetto di Rignano e la costruzione di un ecovillaggio per contrastare la riduzione in schiavitù dei braccianti immigrati della provincia di Foggia', in 'Migranti e territori. Lavoro, diritti, accoglienza' (Ediesse 2015) a cura di M. Omizzolo e P. Sodano e 'L’immigrazione nelle aree rurali della Puglia: il caso della Capitanata', in 'La globalizzazione delle campagne. Migranti e società rurali nel Sud Italia', (FrancoAngeli 2013), a cura di C. Colloca e A. Corradi.