Il giornale su cui scriviamo è rivolto in prevalenza a residenti negli USA che parlano italiano, molti dei quali probabilmente cittadini americani. In Europa, di questi tempi, non tira un’aria buona nei rapporti con gli alleati d’Oltreoceano. Forse è dai tempi della contestazione giovanile della guerra in Vietnam che l’immagine degli USA in Europa non era così offuscata come oggi. E non è un problema di rapporti diplomatici. Quelli, almeno in apparenza, sono ottimi. Le trattative per il TTIP e per il TISA sono a buon punto. Gli screzi semmai sono sotterranei. È proprio un problema di opinione pubblica, la quale è alimentata da un’informazione e da una controinformazione che nei Paesi liberi non può essere controllata.
È un bene questo? Credo di no, soprattutto per gli USA. E proprio per questo oggi voglio mettermi nei loro panni, soprattutto in quelli del cittadino/contribuente americano medio, che oggi vede cadere molte certezze. Per far questo dobbiamo fare un passo indietro e ripercorrere brevemente la storia della leadership americana per capire le ragioni della sua attuale crisi.
Sembra infatti che la leadership mondiale americana sia oggi in serio pericolo, forse definitivamente compromessa, e molte azioni americane sembrano, dico sembrano, perché gli effetti concreti sembrano opposti, volte ad arrestare questo declino. Ma perché il mondo è, o è stato, a trazione americana? Qual è stato il grande carburante del “sogno americano”?
L’America, intesa come gli USA naturalmente, nasce dal primo processo di emancipazione coloniale della storia contemporanea. All’inizio era un mondo strano, al di là dell’Oceano, poco significativo per il mondo intero. Ne parlava Tocqueville come del paradiso della democrazia, della vera democrazia, del regno della libertà (anche se vigeva la schiavitù), di un mondo edificato dal nulla (gli “indiani” erano considerati solo come pochi “selvaggi”) senza i pesanti retaggi della storia europea. Troppo lontani, troppo etnicamente europei e troppo grandi per essere sottomessi nuovamente all’imperialismo europeo, gli americani seguirono la loro strada, all’inizio da “succursale” dell’Europa, con le proprie politiche espansionistiche.
In breve tempo, con la copertura ideologica della “Dottrina di Monroe” (l’America agli americani), arrivarono politicamente al Pacifico costruendo uno spazio politico ed economico enorme, anche se ancora in gran parte vuoto: cacciati inglesi, francesi, spagnoli e messicani dall’hinterland, dal 1783 al 1848, raggiunsero praticamente l’attuale estensione, ma a stento nel frattempo i pionieri avevano varcato gli Appalacchi e stavano colonizzando i territori fino al Mississippi, il resto era “frontiera” o “Far west”. Questo spazio ampio, comune e protetto ad un tempo, era la palestra per la crescita di un capitalismo nazionale che nulla aveva da invidiare a quello delle principali potenze europee, che infatti furono superate una dopo l’altra.
L’unico vero ostacolo era rappresentato dall’eccessiva autonomia dei singoli Stati e dalla contrapposizione tra il Nord industriale e il Sud agrario e schiavista. La lacerante Guerra di Secessione avrebbe rappresentato il cemento sul quale i nuovi USA, potenza industriale e politica emergente, sarebbero stati edificati. Subito dopo, infatti, è il vero decollo. Cominciano gli interventi politici diretti in America centrale, sostituendosi alla Gran Bretagna nella formula neocoloniale. La “Dottrina di Monroe”, dapprima difensiva, diventa imperialista: l’America (continente) agli Americani (USA). Il Pacifico diventa il nuovo “spazio vitale” di penetrazione, fino ad incontrarsi e scontrarsi con il Giappone, altra potenza emergente. L’Alaska è comprata dagli zar russi che non sanno che farsene; il Commodoro Perry spezza l’isolamento medioevale del Giappone, costringendolo alla reazione. Ma è sul piano interno che gli USA cambiano pelle: dall’America dei Cow Boys a quella che poi sarebbe stata chiamata la “Old America” dei grattacieli di Manhattan, delle ondate impetuose di immigrazione dall’Europa, ma soprattutto di una crescita industriale illimitata, che porta gli USA, negli anni ’80 del XIX secolo, allo storico “sorpasso” del Pil sulla vecchia Gran Bretagna, ancora potentissima politicamente, in piena età vittoriana. L’interno degli USA si finisce di colonizzare e di saldare con le ferrovie e le strade.
Gli USA sono un Paese giovane e rampante, la prima potenza industriale del mondo, quasi senza accorgersene, ancora snobbata tuttavia dalle cancellerie europee. La rottura definitiva avviene nella Guerra Ispano-Americana (1896-1898) che vede l’America vittoriosa e, d’allora in poi, seduta in pianta stabile tra le grandi potenze mondiali. Cuba e Portorico, avanzi della colonizzazione ispanica, sono sotto controllo USA. Anche l’America del Sud, ora, deve fare i conti con il gigante nordamericano. Nel Pacifico sfondano: le Hawaii, Guam e le Filippine sono “americane” e inizia, al pari degli altri “europei”, la penetrazione in Cina, con la partecipazione alla Guerra dei Boxer (1900). Ma è negli stessi anni che a Wall Street si crea il Dow Jones, l’indice azionario usato ancora oggi. La piazza di New York è seconda solo a Londra. La crescita degli USA è inarrestabile. È la terra dove ogni sogno può diventare realtà, la terra dove i self made men sono di casa, dove i geni come Guglielmo Marconi trovano quell’accoglienza che non hanno in patria, un patrimonio di ottimismo, di speranza e di pragmatismo che appartiene ormai alla cultura mondiale. La II Rivoluzione industriale vede in America alcune invenzioni che ancora oggi insegniamo in università: apre i battenti la Harvard Business School e, di lì a poco, nascono il “metodo dei casi aziendali” e l’“analisi di bilancio per indici”, roba che oggi consideriamo strumenti di base della cultura aziendale.
La bilancia commerciale USA è sistematicamente attiva e questo, in era di “Gold Standard”, significa aumento sistematico delle riserve auree americane che, proprio in quell’epoca, diventano le più ingenti del mondo. A proposito di “gold”, va ricordata – sempre in quegli anni – la nascita della Federal Reserve (1913). Questa “confederazione” di istituti di emissione privati porta ad una centralizzazione delle funzioni monetarie, dapprima “liberalizzate” dalla lontana era del Presidente Jackson (il cosiddetto free banking in cui all’Unione era riservata la monetazione metallica ma tutte le banche, in teoria, avrebbero potuto emettere banconote avendo un’adeguata riserva metallica), ma poi, progressivamente ricondotte ad un oligopolio sempre più stretto che, appunto, in quegli anni si chiude con la privativa pubblicistica ottenuta.
E tuttavia questo gigante economico, pur accolto tra le grandi potenze mondiali, è ancora un nano politico alla vigilia della Prima Guerra mondiale. Ha la “sua” area di influenza, come gli altri imperi, ma non può andare oltre. Insieme al Giappone è l’unica potenza mondiale extraeuropea, mentre le altre “6” sono tutte europee e raggruppate nella contrapposizione tra Triplice Alleanza (Germania, Impero Austro-Ungarico e Italia) e Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia). Con la Prima Guerra mondiale gli USA fanno un altro passo avanti, ma non ancora decisivo.
Wilson si rivela determinante per la sconfitta della Germania e impone alcune condizioni ai trattati di pace. Sotto l’auspicio americano nasce la Società delle Nazioni (precorritrice dell’attuale ONU) con sede a Ginevra, come la Croce Rossa, in campo neutro. L’espansione cui mirano gli USA non è territoriale (ottengono solo parte dell’Impero coloniale oceanico tedesco, ancora oggi sotto il loro controllo anche se formalmente indipendente), ma economica. Ormai il primato politico USA è fuori discussione, ma è ancora una “prima inter pares”, incapace di influire sulle vicende interne dell’Europa, così come dei loro smisurati imperi coloniali, ormai pieni di crepe, ma sostanzialmente intatti.
La crisi del 1929 piega gli USA, come tutte le economie capitaliste, ma è proprio negli USA che si trova una delle risposte, in chiave istituzionalista, alla crisi con il New Deal, al punto da far dire a Keynes che il capitalismo usciva rafforzato da ogni sua crisi. La risposta USA, come quella della Germania nazista, era di un abbandono del liberismo puro e semplice e di un aumentato ruolo dello Stato, sia pure con una differenza non da poco. La Germania aveva superato la grave crisi deflazionistica con l’emissione di una moneta pubblica non gravata da interessi. Gli USA rooseveltiani non avevano voluto spezzare sino a tal punto l’ortodossia: l’espansione di liquidità era guidata dal debito pubblico, un debito pubblico crescente che solo nella II guerra mondiale avrebbe trovato la soluzione ai propri problemi.
E fu proprio la Guerra Mondiale che sorprese gli Stati Uniti come vera e propria “Superpotenza”, e per di più nucleare, seppure in condominio con l’Unione Sovietica di Stalin. Sebbene all’indomani della Guerra si simulasse una pariteticità con le vecchie potenze europee, ormai non ci credeva più nessuno. A Yalta era intervenuto anche Churchill, ma il destino del Regno Unito era segnato: dovevano accettare il loro progressivo declino, in uno con la liquefazione del proprio impero coloniale. Inglesi e Francesi furono ancora formalmente accolti fra le grandi potenze, ma il loro ruolo era quello di comprimari degli Americani. Due furono i fattori determinanti in questa ascesa. Al primato economico, ormai indiscusso, si aggiungevano infatti altri due elementi: quello monetario e quello politico, per non parlare di quello culturale delle sue università, arricchite dai cervelli in fuga dalle folli persecuzioni europee (valga per tutti il nome di Einstein).
Dal punto di vista politico, il blocco socialista che andava da Berlino Est a Pechino rappresentava un’alternativa troppo radicale al mondo capitalista, rispetto alla quale non ci si poteva che stringere intorno alla maggior potenza militare. L’America ora doveva corteggiare l’Europa, con il Piano Marshall, con la tolleranza di ampi margini di “socialdemocrazia” e di “Stato sociale” invisi al tradizionale liberismo nordamericano dove la sinistra “liberal” rooseveltiana era il massimo consentito e sperimentato. Ma al contempo la stringeva in un’alleanza politico-militare privilegiata, la NATO, che consegnavano agli Stati Uniti il ruolo di gendarme del mondo.
Dal punto di vista monetario gli accordi di Bretton Woods, formalmente ancora basati sull’oro (la “reliquia barbarica” di cui parlava Keynes, aperto sostenitore del meccanismo fiat di costruzione della moneta), ma sostanzialmente basati sul dollaro, davano agli americani una funzione mai sperimentata prima: quella di banchieri del mondo. Il surplus di derivazione industriale delle riserve di Fort Knox, sedimentato in decenni di ascesa economica, diventava il capitale di costituzione di questa nuova istituzione finanziaria mondiale. Le stesse istituzioni finanziarie internazionali, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, erano praticamente controllate dagli USA. Anche l’ONU, la nuova organizzazione internazionale, simbolicamente prendeva sede a New York, e non più a Ginevra. New York era ora la “capitale del mondo”!
I blocchi erano sì ingessati, ma potevano giocare sul “resto del mondo”, i cosiddetti “Paesi non allineati”, come in una grande partita a scacchi. Resto del mondo che da un lato faceva da valvola di sfogo per l’imperialismo dei due blocchi e ne subiva l’instabilità e lo sfruttamento, e che, però, dall’altro lucrava anche qualche povero vantaggio dall’equilibrio tra i due blocchi che ne aumentava il potere contrattuale.
Questa funzione “monetaria” tuttavia – a ben pensarci – sul lungo termine non ha fatto molto bene agli USA, che ne sono usciti snaturati. Da grande potenza industriale, “little by little”, si sono trasformati in potenza finanziaria, e la finanza di Wall Street, ormai indiscutibilmente la prima piazza del mondo, ha indirettamente fatto arrugginire le fabbriche di Chicago. Il debito degli americani ora era la moneta del mondo. Nessuno sarebbe mai venuto ad esigerlo perché serviva a comprare materie prime ed energetiche. E così la stampante americana consentiva di “comprare il mondo”, di trasformare, poco a poco, il mondo bipolare in mondo unipolare. Vero è che ancora era un “gold exchange standard”, e quindi, in teoria, qualche rompiscatole come De Gaulle avrebbe potuto chiedere indietro l’oro fisico. Ma sarebbe bastata una prudente politica di tenere un’adeguata riserva metallica (così come effettivamente andò per un po’, all’incirca fino ai primi anni ’60), perché il sistema mondiale di cambi fissi avesse la propria stabilità. Per un po’ funzionò bene. I grandi speculatori, allora, non erano così forti da sfidare il regime dei cambi fissi (l’Italia tenne per decenni il cambio fisso di 625 lire per dollaro, senza pressione speculativa alcuna) anche perché gli Stati erano talmente sovrani da avere un controllo totale sui movimenti di capitale (in Italia sino al 1990, oggi chi ci volesse provare sarebbe accusato di mettere un regime da “Corea del Nord”).
Ma le esigenze della Guerra fredda erano tante, e la tentazione di abusare dello strumento monetario pure. Così si arrivò alla nota rottura di Nixon dei primi anni ’70. Il mondo fu scioccato dal passaggio puro e semplice al “Dollar Standard”: una moneta fiat emessa da uno Stato e accettata da tutti. Ma dovette accettarlo. In fondo gli USA erano sempre gli USA, e non c’erano alternative all’orizzonte. Ci sarebbe stata un po’ di inflazione, è vero, gli Stati produttori di materie prime sarebbero stati strangolati, è vero. Ma in fondo noi, nel primo mondo, potevamo accucciarci all’ombra del grande alleato e, con la moneta ora libera, addirittura lucrare da qualche svalutazione concorrenziale.
E questo è il mondo in cui la mia generazione è nata e si è formata, e che fino al 1990 ci spiegavano essere “il migliore dei mondi possibili”, immutabile, quasi diritto di natura.
E invece è proprio da allora, dalla caduta del Muro di Berlino e dall’apparente “fine della storia”, che il maggior successo della politica e dell’economia americana si è trasformata nel seme del suo declino.
(Fine prima puntata-segue)