I risultati delle elezioni americane di metà mandato hanno dimostrato che sebbene la forza e la pervasività dell’attività di lobbying della finanza siano state ampiamente riconosciute tanto dai Democratici quanto dai Repubblicani, nel complesso i Repubblicani sono sempre stati più in sintonia con le pressioni di Wall Street. Così, quando il 4 novembre il Grand Old Party, il Partito repubblicano, ha conquistato dopo otto anni la maggioranza in entrambi i rami del Congresso, i big della finanza hanno tirato un sospiro di sollievo.
Che tra Barack Obama e Wall Street non corresse buon sangue era cosa nota. Già nel 2009 il presidente degli Stati Uniti, all’indomani dell’approvazione del TARP (Troubled Assets Relief Program), il maxipiano di salvataggio del settore bancario americano approvato dal Congresso, aveva attaccato sprezzante i banchieri di Wall Street definendoli “fat cats”, gatti grassi. "Rivogliamo il nostro denaro e ce lo riprenderemo. Se le banche sono sane abbastanza per pagare maxi bonus, allora lo sono anche abbastanza per risarcire i contribuenti", con queste parole Obama aveva dichiarato così di voler condurre personalmente una dura battaglia nei confronti del mondo finanziario USA e scongiurare il ripetersi di una delle più gravi crisi finanziarie dal 1929. Nei primi mesi alla Casa Bianca godeva poi di un prezioso Roosevelt moment in cui poteva, come fece l'ex presidente nel 1933 con il Glass-Steagall Act, riscrivere le regole della finanza, senza usare i guanti bianchi con le banche.
Altri tempi. Al di là del giudizio sulla figura e sull'operato di Obama, è apparso evidente che i tentativi di ristrutturare Wall Street si sono scontrati con l’attività spietata dei lobbisti di indebolire o ritardare le norme della principale legge di riforma finanziaria, Dodd-Frank, approvata nell’estate 2010 e considerata troppo punitiva per le banche. Tra queste la Volcker Rule, che in base alla tesi che gli istituti che raccolgono risparmio e hanno quindi la tutela dello Stato non possono rischiare con operazioni in proprio, vorrebbe imporre alle banche di mantenere le attività commerciali separate da quelle d’investimento. Nel frattempo i mutui subprime continuano a creare danni nei portafogli delle banche e i contribuenti a pagare il prezzo degli esosi salvataggi bancari, mentre gli istituti di credito non sembrano avere rispettato i patti con i legislatori, che prevedevano multe e l'adozione di una nuova condotta per evitare condanne penali.
Una cosa è certa: il prodotto più innovativo dell’ultimo decennio, come aveva definito i mutui subprime David Kellerman, direttore finanziario di Freddie Mac, ha contribuito a creare una cultura che ha messo il profitto sopra il cliente, in un totale vuoto etico. Lo ha affermato addirittura William Dudley, il capo della Federal Reserve newyorchese con trascorsi da capo economista della super lobby Goldman Sachs, in occasione di un seminario a porte chiuse dal titolo suggestivo Riformare la cultura e il comportamento dell’industria dei servizi finanziari. Il responsabile della Fed della Grande Mela aveva ammonito i suoi ex colleghi di cessare una volta per tutte comportamenti poco professionali, immorali e irrispettosi delle regole, annunciando una serie di misure specifiche per estendere anche a banchieri e trader le sanzioni fino ad oggi a carico dei soli istituti di credito.
Peccato che Dudley abbia scelto il momento meno favorevole a nuovi tentativi di “ficcare il naso” negli affari delle banche. In un clima politico dove i democratici non hanno più la maggioranza assoluta e il senatore repubblicano dell’Alabama, Richard Shelby, da sempre fervido oppositore della Dodd-Frank e delle politiche della Fed, è pronto ad assumere la presidenza della Commissione bancaria del Senato, l'orizzonte appare tutt'altro che limpido.