Per un biennio ne abbiamo seguito con dedizione – e talvolta con pedantesco attaccamento – gli spostamenti, le interviste televisive (più o meno riuscite) e soprattutto le scelte di governo. Grazie a lui il loden era tornato a essere simbolo di eleganza e austerità, di un potere discreto, ma effettivo. La sobrietà del vestiario corrispondeva alla tanto attesa regolatezza di toni e modi richiesta a un presidente del Consiglio. Mario Monti, dalla Bocconi a Palazzo Chigi, passando per Bruxelles (e molti altri prestigiosi impieghi nel privato), è eletto senatore a vita il 9 novembre 2011 dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A distanza di pochi giorni nasce il suo governo che – in una giostra di passaggi di campanelle tra un premier e l’altro – durerà fino all’Aprile 2013. Monti, rinnegata l’esperienza politica di Scelta Civica, è ora lontano dai riflettori pubblici, dai giornali che lo hanno dapprima salutato come “salvatore della patria”, “Super Mario” per poi dimetterlo come uno dei tanti che hanno deluso un paese sull’orlo del baratro, uno “sventuratissimo tecnocrate” (così Filippo Ceccarelli su Repubblica).
Lontano dai riflettori, si diceva, ma la sua parabola politica non ne ha oscurato la fama in qualità di economista e accademico a livello internazionale. Proprio come l’attuale premier Matteo Renzi, conteso dall’una all’altra costa americana con una agenda fittissima di incontri dalla Silicon Valley al Palazzo di Vetro dell’ONU, anche Mario Monti si trova in questi giorni negli Stati Uniti per una serie di eventi organizzati dal Center for European Studies di Harvard. Il primo è seguito a vista da una copertura mediatica senza pari; il secondo si gode il riconoscimento di professori e studenti negli ambienti a lui più cari delle aule universitarie (forse meno temute di quelle parlamentari). Ironia della sorte, Renzi è alla prese con la riforma del lavoro, il temuto articolo 18 e le proteste dei sindacati, un tema su cui il Governo Monti si era battuto più volte scontrandosi contro la linea dell’allora segretario PD, Pier Luigi Bersani. Una linea ben diversa da quella dell’attuale segretario e premier Renzi. Ma questa è un’altra storia.
Ho avuto modo di incontrare e ascoltare Monti in due occasioni. Un breve meeting aperto ad alcuni studenti italiani ad Harvard presso la sede del Center for European Studies, seguito nel pomeriggio dalla conferenza dedicata alla crisi ucraina (The Urkaine Crisis: What’s Next for Europe in occasione del 2014 Summit on the Future of Europe) che ha visto Monti a colloquio con Carl Bildt, attuale Ministro degli Esteri svedese nel governo di Fredrik Reinfeldt. Ho voluto riportarvi le mie impressioni sull’incontro mattutino, un breve dietro-le-quinte con uno dei personaggi più in vista degli ultimi anni nella scena politica ed economica italiana.
Monti arriva puntuale, alle 10 in punto. L’economia è il tema principale dell’incontro, ma tra uno spread e l’altro ci racconta della sua breve esperienza americana a Yale nel biennio 1967-1968, anni di tensioni e scontri negli Stati Uniti, con la morte di Robert F. Kennedy e Martin Luther King. Un’esperienza fondamentale per la sua carriera, conclusa forse troppo presto per seguire alla Bocconi il professore Innocenzo Gasparini. Monti torna negli USA nel 1994, ma è presto richiamato in Europa dal neopremier Silvio Berlusconi in qualità di Commissario Europeo a Bruxelles. In questa occasione – ci rivela – sente fortemente di far parte di un’entità che va oltre i confini nazionali, ma riesce a sintetizzare nel suo lavoro la componente europeista con la voglia di agire per il proprio paese. Monti si muove nel più ampio contesto dell’Unione Europea con la forte convinzione della sua importanza come fattore di traino politico, culturale ed economico per tutti i paesi membri e per l’Italia in primis, un elemento più volte ribadito negli anni di governo.
Si parla ancora di economia commentando il recente articolo apparso sul Financial Timesa firma di Wolfgang Münchau che avanza come unica soluzione possibile nell’immediato per risollevare la disastrosa situazione economica italiana l’intervento e l’acquisto da parte della Banca Centrale Europea di titoli di stato italiani. Lo scenario, non gradito alla Germania, ha dei precedenti (nel 2011 la BCE, guidata da Jean-Claude Trichet, ha acquistato titoli italiani e spagnoli), ma – pur celata – è chiara la contrarietà di Monti di fronte a questo tipo di proposta. Tra un aneddoto (l’incontro con Obama che gli chiede come comportarsi con Angela Merkel; “Non bisogna dimenticarsi che per i tedeschi l’economia fa ancora parte della filosofia morale e che in tedesco debito e colpa si dicono allo stesso modo, Schuld”) e pillole di economia internazionale, è arrivato il momento dei saluti e delle foto. Riesco solo ora a dirottare la conversazione in senso politico chiedendogli la sua opinione sull’attuale premier e l’azione di governo. Già in posa, il sorriso per la foto non nasconde una certa amarezza nella sua risposta. Renzi è un incredibile coach – mi dice – l’ energico allenatore di un intero paese che vuole rinnovamento in campo politico e soluzioni in campo economico. Per il momento però le riforme di governo sono solo in potenza e deve ancora dimostrare di saper #cambiareverso #passodopopasso. Con una punta di orgoglio, Monti sottolinea che l’unica grande riforma attuata è proprio quella delle pensioni durante il suo governo (nel bene e nel male aggiungerei…). Sul Jobs Act renziano però si dice fiducioso e speranzoso che il premier riuscirà a realizzare quello che lui e il suo governo avevano solo tentato di fronte alla forte opposizione rivolta proprio del PD guidato da Bersani. Sembra proprio che sul fondamentale tema del lavoro le strade di Monti e Renzi vengano a sfiorarsi come in questi giorni le loro agende sul suolo americano.
*Chiara Trebaiocchi è Phd candidate ad Harvard del dipartimento di Romance Languages and Literatures.