Ieri a Palermo una maxi-operazione coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia ha messo in manette 181 persone, che operavano per Cosa nostra. Si tratta di boss affermati e novelli, uomini d’onore, ed estortori del capoluogo siciliano e della provincia. Per portare a termine l’operazione ci sono voluti 1.200 carabinieri provenienti dai comandi provinciali della Sicilia. Il blitz ha colpito la mafia che mantiene il controllo ferreo della città attraverso una organizzazione efficiente che fa uso della tecnologia.
I capimafia in carcere e quelli ancora liberi utilizzavano infatti smartphone di ultima generazione installando in essi software criptati per partecipare ai summit sulla base dei quali organizzavano i “mandamenti” che nel gergo mafioso indica la zona di influenza di tre o più famiglie affiliate all’organizzazione. Come sottolinea il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia: “la presenza di telefoni che circolano liberamente all’interno delle carceri non è una novità, purtroppo è un dato ricorrente denunciato da altri colleghi in tutta Italia”.
De Lucia ha inoltre sottolineato durante l’intervista rilasciata ai media italiani:”cosa nostra continua a esercitare il suo fascino in certi ambienti come le borgate in cui i giovani hanno alternative di vita limitate e si identificano in rappresentazioni di potenza di cui ancora gode la mafia. Nell’indagine di oggi sono coinvolti moltissimi giovani e su questi dobbiamo essere particolarmente attenti. Come siamo attenti ai vecchi capi che tornano, dobbiamo stare attenti a chi viene reclutato oggi, cioè al futuro della mafia”.
E resta vivo il vecchio sogno, aggiunge De Lucia: “Cosa nostra vorrebbe tornare alla commissione provinciale, ma non riesce a ricostituirla. I boss palermitani non hanno accantonato il vecchio sogno, dunque. E aggiunge una riflessione su cosa significa entrare nel circuito della mafia:”soggetti che sono stati in carcere, una volta usciti tornano a ‘mafiare’, sulla scorta degli elementi che abbiamo acquisito. Da Cosa nostra si esce in due modi spiega il procuratore: o collaborando con la giustizia o con il fine vita. Altrimenti in Cosa nostra si rimane. Anche le vicende che sono rappresentate in queste inchieste lo dimostrano”.