TEST AUTODIAGNOSTICO COGNITIVO: CHI RIUSCIRÀ A LEGGERE FINO IN FONDO QUESTO ARTICOLO?
ATTENZIONE! QUESTO ARTICOLO CONTIENE DETTAGLI DI POLITICA ECONOMICA E RICHIEDE UN TEMPO DI LETTURA DI BEN 8 MINUTI! SE NE SCONSIGLIA PERTANTO LA FRUIZIONE ALLE PERSONE AFFLITTE DA DIFFICOLTÀ DI CONCENTRAZIONE.
Leggendo il New York Times di recente, mi è balzato agli occhi il titolo di un pezzo che mi è parso perfetto per descrivere la crisi della democrazia che affligge gli Stati Uniti e gran parte dell’Occidente: “Il 17% degli elettori americani attribuiscono a Biden la responsabilità per la fine di Roe“.
Per qualche lettore italiano che potrebbe non sapere a che cosa si riferisce la frase, Roe vs. Wade è la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che, nel 1973, ha dichiarato costituzionale il diritto all’aborto su tutto il territorio federale.
Un diritto contro il quale il movimento conservatore americano si è battuto per mezzo secolo e che è finalmente riuscito a far abrogare nel 2022 grazie ai tre giudici che Donald Trump ha nominato alla Corte Suprema durante i suoi quattro anni alla Casa Bianca.
Il fatto che uno degli eventi di politica americana più significativi degli ultimi anni venga interpretato in maniera così diametralmente opposta alla realtà da una fetta così ampia dell’elettorato la dice lunga sulla profonda crisi epistemologica che stiamo attraversando (nel caso che tra i lettori di questo articolo ci sia qualcuno che rientra in quel 17% citato dal New York Times: l’epistemologia è la disciplina che studia il modo in cui apprendiamo e interpretiamo la realtà che ci circonda…).
Il modello democratico non tiene, né potrebbe tener, conto dell’aspetto “qualitativo” del voto individuale, vale a dire del livello di informazione e di conoscenza della situazione politica da parte dell’elettorato chiamato a esprimersi su aspetti della vita sociale che hanno profonde ripercussioni su tutti.
Il mio vicino di casa, sbagliando clamorosamente, potrebbe essere convinto che il responsabile dell’abrogazione federale del diritto all’aborto sia Biden ma, in sede elettorale, il suo voto conta tanto quanto il mio malgrado il fatto che io sappia bene che non è così.

Un problema inasprito dal fatto che, vista la facilità con la quale è possibile manipolare la gente, alcuni organi di stampa americani hanno abbandonato da tempo la sfera dell’informazione per dedicarsi a tempo pieno a quello della propaganda.
A parte questi casi tuttavia, il problema principale, vale a dire l’ignoranza dell’opinione pubblica americana, è divenuto ormai un fatto così scontato che, con l’approssimarsi delle elezioni, molti giornali e reti televisive, anche quelli che si ispirano ancora ai principi dell’oggettività e imparzialità della stampa, preferiscono trascurare i dettagli delle questioni politiche per dedicarsi invece a quella che, da queste parti, viene definita “The horse race”, che significa letteralmente “La corsa dei cavalli”: un esercizio giornalistico in cui si tenta di prevedere il modo in cui questo o quell’evento di cronaca influenzerà l’indice di gradimento dell’opinione pubblica per questo o quel candidato.
Prendiamo, per esempio, i rilevamenti periodici condotti dall’U.S. Bureau of Labor Statistics (BLS) sul tasso di inflazione che, stando a quel che dicono i sondaggi, è uno degli argomenti più importanti nelle considerazioni di voto dell’elettorato nelle prossime consultazioni presidenziali di novembre.
Che idea si è fatta la gente del tasso di inflazione negli ultimi quattro anni? Un’idea molto negativa ovviamente, perché il costo della vita ha subito una drammatica impennata nel periodo che va dalla fine della pandemia ad ora. In base a questo quindi a chi, tra Trump e Biden, verrà accollata “la colpa” di questo aumento dei prezzi? La risposta è: a Joe Biden perché questa crescita dell’inflazione si è verificata nel periodo che coincide con la sua presidenza.
Un altro fattore che, a detta dei media, avrà un impatto considerevole sulle decisioni di voto è quello della succitata, drastica limitazione all’aborto determinata nel 2022, dalla sentenza della Corte Suprema. Una sentenza malvista dalla maggior parte dell’opinione pubblica; persino da una parte di quella repubblicana.
Quale tra i due candidati pagherà più caramente le conseguenze politiche di questa decisione?
Donald Trump ovviamente, perché quello di abolire la protezione federale del diritto all’aborto è stato, sin dall’inizio, uno dei suoi obiettivi politici dichiarati.
Nella prospettiva della “corsa dei cavalli” quindi, l’impatto elettorale di questi due eventi si tradurrebbe in una situazione di “pareggio”: la questione aborto dovrebbe avvantaggiare Biden, mentre il problema inflazione dovrebbe favorire Trump.
Una stampa che enfatizzi il compito di informare la gente, tuttavia, dovrebbe fare delle distinzioni importanti.
Mentre la responsabilità dell’abrogazione del diritto federale all’aborto è interamente e incontrovertibilmente di Donald Trump e del Partito Repubblicano, quella dell’inflazione verificatasi negli ultimi quattro anni andrebbe valutata e chiarita con molta più attenzione.
See our interactive graphics on today’s new Producer Price Indexes data https://t.co/K3B6FPEMog #PPI #BLSdata #DataViz
— BLS-Labor Statistics (@BLS_gov) June 13, 2024
In primo luogo, andrebbe spiegato alla gente che l’inflazione non è il tasso di aumento del costo della vita ma il tasso di velocità con il quale il costo della vita aumenta.
In altre parole, salvo rarissime eccezioni, i prezzi crescono sempre, quindi criticare Biden perché un prodotto che sei o sette anni fa costava il 10% meno di quanto costa adesso è come accollargli la colpa del fatto che l’affitto di un appartamento a New York non costa più 80 dollari al mese come nei primi anni Sessanta.
“Ok – potrebbero dire i suoi critici, – ma resta il fatto che il tasso di inflazione, ovvero la velocità con la quale i prezzi sono aumentati, è salito alle stelle negli ultimi quattro anni“.
Verissimo, ma in base a cosa la colpa dovrebbe essere dell’attuale presidente?
Come molte analisi macroeconomiche hanno dimostrato, l’inflazione, che è schizzata alle stelle a partire dagli ultimi mesi dell’emergenza pandemica, riflette una profonda trasformazione, verificatasi in quel periodo, nelle abitudini dei consumatori i quali, non avendo più accesso a servizi (ristoranti, palestre, teatri) a causa dei timori di contagio, hanno speso i propri soldi da casa per l’acquisto online di molti prodotti. Questo, a sua volta, ha fatto aumentare la domanda al punto che le aziende, avendo nel frattempo ridotto la propria capacità produttiva a causa della pandemia, non sono state più in grado di soddisfarla (ricordate la penuria di carta igienica?).
Questo fenomeno, inoltre, non si è verificato solo in America ma anche in Europa e in molti altri Paesi. Se il costo della carne o delle le uova è aumentato anche in Olanda o in Bulgaria è sempre colpa di Biden?
“Va bene – potremmo sentirci controbattere, – ma, anche ammettendo che quello dell’aumento dei prezzi è stato un fenomeno trans-nazionale che la leadership politica non era in grado di controllare, i miliardi e miliardi di dollari in sussidi che l’amministrazione Biden ha concesso a imprese e individui per mitigare la recessione dovuta al Covid ha certamente contribuito a peggiorare l’inflazione. Dopotutto, con questi soldi in tasca, la gente è stata incentivata ad acquistare merci la cui produzione non era ancora tornata a pieno regime facendo salire i prezzi“.
È molto probabile. Ma qual’era l’alternativa?
All’inizio della Grande Recessione del 2007-09, seguita al collasso dei mercati immobiliari, l’amministrazione Bush comprese che, in una situazione di estrema crisi finanziaria, il rimedio più efficace era quello keynesiano di sostenere l’economia con ingenti iniezioni di capitali nei mercati. In altre parole, di fronte alla catastrofica gravità di quella crisi, un’amministrazione di destra fu costretta a mettere da parte la sua stessa propaganda ideologica e ad adottare un rimedio “di sinistra” per evitare il disastro. Rimedio poi ripreso da Barack Obama che ereditò l’ingrato compito di far uscire il paese dalla crisi. Ma a quale prezzo?
Grazie alla timidezza politica tipica dei democratici e al puntuale boicottaggio ipocrita dei repubblicani, i fondi stanziati dal governo Obama per sostenere l’economia (circa 830 miliardi di cui 287 “annacquati” dagli sgravi fiscali imposti dal GOP), si rivelarono insufficienti e quello che ne seguì fu la cosiddetta “sluggish recovery“, la “ripresa anemica” caratterizzata da livelli persistenti e protratti nel tempo di alta disoccupazione e scarsi investimenti.
Messo di fronte alla crisi finanziaria post-Covid, Biden non ha commesso lo stesso errore: ha stanziato fondi per ben 1.300 miliardi di dollari che non solo hanno fatto della ripresa economica americana la più riuscita tra quelle di tutti i Paesi sviluppati ma ha centrato anche il difficile obiettivo del “soft landing“, “l’atterraggio morbido”, costituito da una drastica diminuzione dell’inflazione raggiunto senza innescare una nuova recessione.
Se la colpa dell’aumento dell’inflazione è da attribuire a Biden semplicemente perché è avvenuto durante la sua presidenza, allora bisogna anche dargli il merito della drastica diminuzione verificatasi da un anno a questa parte. Giusto?
Today’s report shows continued progress in lowering inflation. President Biden knows that costs are still too high for many families and we still have a lot more to do. That’s why he will keep fighting to lower drug costs, grocery prices, and energy bills.
— The White House (@WhiteHouse) June 12, 2024
La suprema ipocrisia di coloro che cercano di screditare Biden accollandogli la responsabilità dei fenomeni inflazionari degli ultimi quattro anni consiste nel fatto che questi stessi critici sono strenui sostenitori della filosofia economica conservatrice del lassaiz-faire che si oppone a ogni tipo di intervento pubblico nell’economia.
Dal momento che l’aumento dei prezzi di tutti i prodotti e servizi, dal petrolio, ai biglietti del cinema, alle uova di gallina, non vengono determinati dai governi ma dalle dinamiche di mercato, dalle aziende e dai produttori di materie prime (molti dei quali hanno speculato pesantemente sul riemergere dell’inflazione) la domanda che andrebbe posta da una stampa efficace ma che nessuno chiede mai è: cosa avrebbe dovuto fare Biden per scongiurare questi aumenti? Imporre un calmiere dei prezzi?
Ve la immaginate la reazione delle forze conservatrici americane di fronte a un’iniziativa di questo genere? Sarebbe stato un susseguirsi di ululati e accuse di “Socialismo!, “Comunismo!!”, “Bolscevismo!!!”.
Per concludere, è vero che, al giorno d’oggi, è difficilissimo per i mass-media trasmettere all’opinione pubblica tutte le sfumature e i dettagli di fenomeni sociali, politici ed economici di una realtà che diventa sempre più complessa. Un compito ancora più arduo nell’era dei social media, della distrazione di massa, della disinformazione e della perdita delle nostre capacità cognitive di concentrazione (a proposito, se siete riusciti ad arrivare fino a questo punto dell’articolo complimenti: ci sono ancora speranze per voi…).
Di fronte a queste difficoltà, molta parte della stampa preferisce dedicarsi alla “corsa dei cavalli” che però, trascurando di addentrarsi nei dettagli delle questioni, finisce con lo spingere la gente ad associare automaticamente e passivamente questo o quel problema a questo o quel candidato a prescindere dai loro effettivi meriti o responsabilità.
La democrazia si fonda anche sulla necessità da parte degli elettori di navigare la complessità del reale e di esprimere il proprio voto in maniera informata.
Il dilemma su come sciogliere questo nodo gordiano è la grande incognita di un futuro dai contorni molto incerti ma che è, per tutti noi, appena dietro l’angolo.