Solo gli italiani – quando sono davvero grandi – riescono a tenere tutto assieme.
Così è stato nei periodi cruciali della nostra storia culturale. Nel Rinascimento per esempio quando si poteva essere allo stesso tempo latinisti e grecisti, filosofi, scienziati, persino gastronomi. Non si voleva cambiare un singolo aspetto della vita, ma un intero sistema.
Così è stato nel futurismo, quando i Marinetti e i Depero intrecciavano estetica e industria, cibo e ginnastica, arte e pubblicità, velocità e poesia.
Un rivoluzionario tutto italiano – in questo senso – è stato Gaetano Pesce che ci ha appena lasciato, a 84 anni.

Disegnava edifici; famosissimo l’Organic Building di Osaka (1989-1993) che anticipava il Bosco Verticale di Stefano Boeri (2009). Disegnava ciò che negli edifici doveva entrare: piatti, mobili, tavoli, sedute. Memorabili i divani ispirati dalla “michetta” milanese. A New York aveva avuto la sua consacrazione quand’era stato tra i protagonisti di una memorabile mostra al MoMA: Italy. The New Domestic Landscape (1972).
Lo incontravo spesso da Antonucci, sull’81esima, sempre in compagnia di signore bellissime e brillanti. Si sedeva in una verandina, fuori del locale. Quando mi vedeva, mi chiamava con un cenno. Voleva ascoltare e raccontare.
E a casa mi arrivavano intanto i suoi coloratissimi inviti stampati in silicone, sempre con forme diverse, per mostre a New York (marzo 2023), Rovereto (settembre 2023), Pechino (dicembre 2023), Miami (dicembre 2023). Inviti che lasciavano passare la luce, e quasi si modellavano tra le mani, emblemi di quelle “percezioni elastiche” che Pesce ricercava in tutte le sue opere.
Nessuno come lui sapeva muoversi tra l’Italia, gli USA e il mondo, senza mai dimenticare le origini. Era nato a La Spezia, ma era cresciuto e aveva studiato in Veneto, a Venezia, e prima ancora a Padova che gli era rimasta nel cuore, ed è anche la mia città. Condividevamo ricordi liceali: c’era una differenza di due decenni tra noi, ma i professori erano gli stessi. Proprio Padova gli tributò una grande mostra nel 2018, quando più di duecento sue opere vennero esposte nell’immenso Palazzo della Ragione. Arrivarono migliaia di visitatori, ad ammirare un gioco che spesso si faceva serio. C’erano le famose sedie, i divani, le poltrone di Pesce (chi non conosce la Big Mama, ovvero la UP5 e la UP6?), e c’era anche una coloratissima Italia crocefissa.

Tra le opere realizzate ce n’era una che nasceva da una speranza o forse un’utopia: un plastico stupendo che mostrava un possibile e sfolgorante attraversamento delle acque e degli argini che circondano la Cappella degli Scrovegni.
Ogni volta che mi vedeva, Gaetano mi ripeteva: ma tu che sei di Padova perché non li convinci a realizzare quel progetto? Con chi devo parlare, cosa devo fare perché lo mettano in opera? Era a New York, ma Padova non gli usciva dal cuore.
Quel cuore che ispirava una delle sue sculture più emozionanti, giocose, malinconiche e monumentali: il Doppio Cuore sospeso nell’aria dalla freccia che lo trafiggeva. E nel suo progetto padovano credo che un ruolo fondamentale avesse l’acqua, il simbolo stesso della fluidità, della mobilità, di un tempo eracliteo, mai uguale a se stesso: il tempo che ispirava l’orologio My time, creato da Pesce per Morellato.

I fiumi e gli argini che attraversano le nostre città sono diventati luoghi tristi, dimenticati, deserti inselvatichiti che non guardiamo più. E invece, nel passato, quei fiumi, quegli argini erano le arterie pulsanti della vita quotidiana. Vi arrivavano le lavandaie, le ruote dei mulini alzavano spruzzi di mille colori, i barcaioli caricavano e scaricavano merci gridando e cantando, qualcuno pescava, qualcuno si nascondeva con l’innamorata. Pesce lo sapeva, e voleva riconquistare tempi, reinventare spazi, regalare immaginazioni antiche e nuove, sempre coloratissime, al suo mondo.
Per questo potere della fantasia, Pesce è stato davvero uno straordinario protagonista e inventore del tempo che oggi viviamo. Un uomo del ’68, quando il grigio funzionalismo e utilitarismo della prima metà del Novecento, veniva rovesciato nell’apologia del colore, nel rifiuto dello standard, nell’idea di prodotti plasmati sugli umani: simili ma mai identici.

Per questo le opere di Pesce non erano mai rigide ma si adattavano a chi le acquistava, all’ambiente in cui erano collocate, a chi le utilizzava o le guardava. Prima di Pistoletto fu Pesce a usare gli specchi. Già negli anni ’60 invitava i padovani a vedere i loro ritratti, e faceva trovare loro una mostra di specchi. L’arte e la realtà si muovevano assieme.
Tra pochi giorni, al Salone del Mobile di Milano, Pesce avrebbe inaugurato la mostra Nice to See You – L’uomo stanco. Una mostra che avrebbe rovesciato la stanchezza dell’uomo contemporaneo in creatività.
E se questa è la lezione che ci arriva da lui, allora seguiamola. Rovesciamo la morte di Pesce nella nuova vita che le sue opere, il suo genio, la sua testimonianza possono dare agli infiniti modi in cui abitiamo il mondo. Gli occhi di Pesce diventino i nostri, in un gioco di specchi nuovo e infinito.