Claudine Gay, presidente di Harvard, rimarrà al suo posto e eviterà la sorte che ha colpito, solo pochi giorni fa, la presidente dell’Università della Pennsylvania Elizabeth Magill. Lo ha deciso, dopo una lunga riunione a porte chiuse, la Harvard Corporation, l’organo che governa la prestigiosa università, dopo che oltre 700 insegnanti avevano firmato una lettera a suo favore.
A schierarsi a favore della donna, prima presidente nera che ha assunto la carica solo lo scorso luglio, erano stati anche molti dei colleghi che non avevano esitato a criticarla per la sua incapacità di evitare le manifestazioni antisemite all’interno del campus e dopo la sua equivoca testimonianza di fronte al Congresso.
”La nostra deliberazione afferma la nostra fiducia che la presidente Gay è la giusta leader per aiutare la nostra comunità a risanare le sue ferite e confrontarsi con le serie sfide sociali con cui ci confrontiamo’ ha spiegato in un comunicato la Harvard Corporation, che ha però anche precisato che ogni manifestazione di antisemitismo è contraria ai diritti umani e va condannata.
Quello che sta succedendo in questi giorni negli atenei americani, gli stessi che sono stati per decenni un esempio da imitare per le università di tutto il mondo e un sogno qualche volta irraggiungibile per gli studenti più dotati, è una storia complessa, in cui si incrociano interessi politici, economici e didattici. Gli eventi degli ultimi mesi, con lo scoppio della guerra in Medio Oriente e le manifestazioni che hanno fatto sentire insicuri e poco protetti gli studenti ebrei, li hanno portati drammaticamente tutti alla luce, ma la loro origine è lontana.
Per anni, in realtà, la destra conservatrice ha visto con sospetto la direzione che gli atenei più prestigiosi avevano preso in difesa della libertà di pensiero per tutti gli studenti e a favore di una diversificazione della popolazione studentesca con una ammissione facilitata per i membri delle comunità più svantaggiate.
Quando le manifestazioni pro-palestinesi nei campus hanno assunto toni decisamente antisemiti, le organizzazioni ebraiche hanno protestato e perfino molti generosi finanziatori hanno minacciato di chiudere i cordoni della borsa di fronte all’incapacità dei dirigenti di controllare le espressioni di odio. Molti repubblicani hanno visto una buona occasione per muoversi. Durante l’udienza di fronte al Congresso della settimana scorsa, la rappresentante Elise Stefanick, ex repubblicana moderata diventata ora una strenua sostenitrice di Trump, ha avuto buon gioco nel mettere in crisi tre presidenti universitarie intimorite, imbarazzate e probabilmente mal preparate dai loro avvocati.
Nei giorni successivi, sia Elizabeth Magill, che Claudine Gay che Sally Kornbluth, presidente del Massachussets Institute of Technology, si sono più volte scusate per l’ambiguità delle loro risposte. Per la presidente della Pennsylvania University, che era già entrata in contrasto con la dirigenza e i finanziatori dell’ateneo prima dell’attacco di Hamas per una controversa conferenza sulla letteratura palestinese, le scuse non sono bastate e l’insegnante è stata costretta a dimettersi, mentre per la presidente di M.I.T il futuro è ancora incerto. Difesa da molti dei suoi stessi critici, e malgrado diverse lettere per chiederne le dimissioni – firmate da studenti e ex alunni e perfino da un finanziatore ultramiliardario come William Ackman – Claudine Gay è ora rimasta nella sua prestigiosa posizione.
Per tutti i campus americani, però, i problemi non sono finiti. Lo sforzo delle organizzazioni di destra per indebolire l’immagine delle università più vicine agli ideali della sinistra non è certo destinato a fermarsi dopo una prima vittoria in Congresso. E per gli stessi atenei, l’impegno ad eliminare l’antisemitismo e l’anti-islamismo senza toccare la libertà di espressione e il diritto alla diversità non sarà facile, sia a causa degli ideali che hanno dettato le norme interne, che a causa dell’ignoranza di tanti degli studenti pronti ad urlare slogan di cui non conoscono il significato.
Un recente sondaggio su 250 studenti provenienti da tutti gli Stati Uniti e esaminato dal Wall Street Journal, solo per fare un esempio, ha rivelato che solo il 47 per cento dei giovani pronti a cantare lo slogan ”dal fiume al mare” , che gli ebrei considerano un invito alla distruzione di Israele, era in grado di rivelare di che fiume e di che mare si tratta; qualcuno ha addirittura citato l’Atlantico e l’Eufrate. Il 10 per cento di loro pensava che Arafat sia stato un primo ministro di Israele e un quarto non ha mai sentito parlare degli accordi di Oslo. Messi di fronte a una cartina o a un fatto storico, molti hanno cambiato la loro opinione.
Per Claudine Gay, il vero lavoro per difendere l’autonomia del suo ateneo dagli attacchi politici e educare un corpo studentesco completamente impreparato, insomma, comincia solo ora e sarà certo lungo.