Anni fa molti ebrei americani e molti ebrei israeliani – non sappiamo se per scherzo o no – erano convinti che invece di una bandiera israeliana con una sola stella per il piccolo paese in riva al Mediterraneo poteva bastare aggiungere una stella a quella americana. I rapporti tra Usa e Israele, per tanti motivi, sono spesso simbiotici. I legami sono stretti sul piano della difesa; l’idea di democrazia simile nella loro confusione e incertezza. Amore e fastidio reciproco sono sempre andati di pari passo ma mai le tensioni tra i rispettivi leader erano arrivati a un livello così pesante come oggi.
Lunedì Biden e Netanyahu si sono parlati al telefono e il presidente americano, per la prima volta dalle elezioni israeliane, ha detto “vediamoci”. Non l’invito tradizionale alla Casa Bianca, da mesi atteso, ma un vago incontro, probabilmente da fare in autunno in margine all’Assemblea generale dell’Onu. Il premier è apparso soddisfatto, guadagna tempo, ma lo scontro va avanti e sa che potrebbe anche inasprirsi di pari passo con il deterioramento della situazione interna israeliana. C’è stata ieri in tutto il paese mediorientale un altro “giorno di resistenza” da una parte massiccia del pubblico ebraico. Postano contro quello che viene definito un tentativo di “colpo di stato giudiziario” da parte del premier Netanyahu e dei suoi alleati di governo, elementi di una estrema destra come non si era mai vista vicina al potere.
Le guerre, i conflitti, sono due. Il fronte interno israeliano mai diviso come in questi giorni, e quello trans-atlantico che vede, forse per la prima volta, l’alleanza Israele-Usa o Usa-Israele in difficoltà. Sul fronte interno è sempre più evidente la situazione difficile, si potrebbe definire assurda, nella quale si è piazzato il primo ministro Netanyahu. Oggi e domani le commissioni parlamentari devono esaminare la proposta del premier e dei suoi alleati di modificare la legge e dare ai ministri i poteri che erano dell’Alta corte, massimo guardiano della democrazia israeliana, quella che riguarda soprattutto gli ebrei, poco spesso nulla i palestinesi.

Israele non ha una Corte costituzionale perché non ha mai avuto una Costituzione. Politici e fondatori del stato preferirono rinviare la creazione di un documento simile a quello americano in quanto era considerato un elemento di scontro e incertezza – e lo è ancora – non soltanto il confine dello stato ma anche quale paese doveva diventare Israele. Guerre e conflitti, soprattutto giugno 1967 e ottobre 1973, resero il compito più difficile. Il territorio oggi controllato da Israele va dal Mediterraneo al fiume Giordano ma quello che fa parte, legalmente di Israele, termina a metà Gerusalemme; il resto è considerato “territorio occupato” o, come viene definito dai governanti ebrei “territorio amministrato”. In questi anni si è molto discusso del futuro di Israele. Stato bi-nazionale ossia degli ebrei e dei palestinesi oppure stato dei suoi cittadini di oggi (ebrei e arabi-palestinesi) accanto a uno stato palestinese indipendente.
L’incertezza ha giocato molto nei rapporti tra i governi americani e israeliani. In questi lunghi mesi di manifestazioni e proteste in Israele contro Netanyahu la questione palestinese non è stata mai affrontata dagli israeliani ebrei. L’incertezza sta bene a tutti, anche agli Stati Uniti che trova difficile accettare una soluzione “non democratica” per Israele, paese considerato il maggiore alleato di Washington nella regione e anche altrove ma impegno a portare una relazione stretta, sia sul piano politico che militare. Biden, anche attraverso la stampa americana, ha inviato numerosi segni di disappunto all’attuale leadership israeliana. Netanyahu ha evitato di raccoglierli e ancora oggi sembra intenzionato a continuare sulla strada imboccata non soltanto con la revisione delle leggi che riguardano l’Alta corte (e che sono di suo personale interesse) ma anche con la rapida approvazione di nuovi insediamenti nei territori occupati della Cisgiordania, voluti certamente dai suoi alleati di estrema destra ma non contrari a quello che lui stesso pensa debba essere il futuro geografico di Israele: dal Mediterraneo al Giordano appunto. È, nella pratica, la visione di Ze’ev Jabotinsky, il capo del movimento sionista di destra, amico di Mussolini, di cui il padre di Netanyahu, famoso storico, fu segretario.
Per lui, ma non solo, i palestinesi non sono mai esistiti come popolo. Oggi la maggioranza degli israeliani sembra condividere questa idea oppure non sa – o non vuole – vivere con o accanto a loro. Una scelta o una indecisione che ha indotto molte organizzazioni umanitarie e paragonare Israele al Sudafrica ai tempi dell’apartheid. La questione, comunque, non è considerato un problema da Netanyahu. Va avanti con l’approvazione di nuovi insediamenti (anche ieri) non soltanto in Cisgiordania ma anche nella parte palestinese di Gerusalemme. Molti sono convinti che ormai parlare di stato palestinese accanto a Israele sia soltanto politica, per non dire che l’opzione è scaduta e non ancora meno proponibile trasformare Israele in uno stato democratico per i due popoli. Anni fa, poco dopo gli accordi di Oslo e la famosa firma sul prato della Casa bianca, incontrai a Gerusalemme uno degli uomini più vicini ad Arafat. Aveva avuto il permesso di visitare la città santa e anche alcune di quelle palestinesi in Cisgiordania. Pranzammo insieme ma non volle mangiare. Era sconvolto. “Non sapevamo – disse – quanto gli ebrei avessero costruito in mezzo al nostro territorio. Mettere su uno stato palestinese indipendente sarà molto difficile. Arafat non è consapevole. È stato ingannato anche dai suoi collaboratori, dai leader palestinesi in Cisgiordania. Da tutti.”

Per il premier la preoccupazione maggiore, a prescindere dai rapporti con la Casa Bianca (ha molti amici repubblicani, era molto amico di Trump, con i democratici di meno) è l’atteggiamento dei militari della riserva. Tra i dimostranti ve ne sono migliaia e si stanno rifiutando di rispondere alle chiamate annuali per l’addestramento nella riserva. Hanno cominciato quelli dell’aviazione e ora il movimento di dissenso è andato a finire in altri reparti fondamentali per la difesa di Israele. Per il capo dell’IDF la ribellione dei riservisti contro la revisione giudiziaria mette in pericolo la sicurezza di Israele. Concetto che lunedì Netanyahu ha voluto gridare ai quattro venti durante una cerimonia a Gerusalemme in memoria del suo mentore.
“Come Jabotinsky, che credeva che l’alleanza naturale dello stato degli ebrei fosse con le potenze occidentali, così noi crediamo che la nostra prima e più importante alleanza, che è insostituibile, sia con gli Stati Uniti. Tuttavia, ricorderemo sempre che la responsabilità suprema per il nostro destino e la nostra sicurezza è su di noi, sul governo sovrano di Israele a Gerusalemme”.
“Anche ai tempi di Jabotinsky, c’erano campi, disaccordi, discussioni e occasionalmente liti che non erano meno aspre di quanto lo siano oggi. Ma Jabotinsky sapeva sempre che vi erano limiti che non dovevano essere superati…In nessun modo avrebbe perdonato l’incitamento al rifiuto di prestare servizio nell’esercito israeliano.” “Il rifiuto di servire costituisce un assalto alla democrazia israeliana” aveva con rabbia lunedì e Haaretz, quotidiano di sinistra, ha voluto dargli ragione. “Lo stato – ha poi insistito parlando chiaramente ai cittadini ebrei e non al venti percento di cittadini che sono palestinesi – è di tutti noi. Vorrei dirvi che, proprio perché appartiene a tutti noi, capiamo che una parte del pubblico ha paura di un cambiamento fondamentale nel carattere dello Stato. Pertanto, vorrei sottolineare: noi, gli studenti di Jabotinsky, ci impegniamo affinché Israele rimanga uno stato nazionale ebraico e democratico, libero, liberale…”.
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