Il mondo attorno a noi, soprattutto dopo la pandemia, è pieno di persone che cambiano, chiudono, ripartono. Come fanno? Cosa provano?
È successo anche a me e ora mi occupo di coaching, supportando persone e imprese nei loro nuovi percorsi. In questo articolo primo parlerò di coaching e di dimissioni, comincio con la mia personale esperienza perché altre storie hanno aiutato me, quando ne ho avuto bisogno, e potrebbe essere lo stesso per gli altri.
La grande premessa è che dopo le mie dimissioni non sono diventata imprenditrice e neppure milionaria. Niente svolta economica, bensì benessere lavorativo. Semplicemente sono passata da un lavoro che mi spegneva ad uno (anzi ad una sinergia di lavori), che mi corrisponde e mi fa stare bene. Come ha scritto qualcuno, viviamo in un periodo in cui le dimissioni sono diventate un genere letterario ed io faccio parte di coloro che hanno lasciato il lavoro in piena pandemia senza avere alternative certe, ma solo con un progetto: sono una dimitter o una great resignator, che dir si voglia. Si leggono ancora molti articoli sul tema della Great Resignation: dimissione volontaria dal lavoro che si è registrato come fenomeno di massa a partire dal 2020.
Tante sono le considerazioni anche su chi si è pentito di aver cambiato lavoro o sul fatto che si tratti di una questione di pochi privilegiati: vero. Il fenomeno include questi aspetti, ma credo che il punto sia un altro. Non sono il licenziamento, il cambiamento di lavoro o il privilegio, il cuore della questione, ma il fenomeno in sé e il malessere lavorativo diffuso.
Perché si è verificato questo fenomeno in un momento di grande incertezza economica, in cui ci si aspettava il contrario?
Veniamo alla mia esperienza: dopo la laurea in filosofia e il master in HR management ho lavorato dieci anni in azienda dove ho avuto modo di sperimentarmi in ruoli diversi e in compagnie diverse. Durante gli anni di lavoro in azienda, ho continuato a studiare frequentando corsi di PNL e comunicazione efficace, fino a prendere la qualifica di Coach professionista che è arrivata, ormai, un po’ di anni fa.
La vera “sveglia” è suonata in pandemia, quando sono riuscita a trovare il coraggio di mettere insieme il mio bagaglio di studi e di esperienza e prendermi la responsabilità di realizzare una transizione professionale. Dinanzi a quell’evento estremo, non avevo più scuse ma solo una grande lucidità e consapevolezza.
Grazie al percorso personale di coaching, e alla scuola frequentata, sono riuscita ad integrare il mio bisogno di libertà e quello di sicurezza che per molto tempo mi aveva trattenuta dal fare il salto.
La pandemia per me ha rappresentato un punto di non ritorno: un momento in cui è diventato più complicato resistere anche senza trovare un senso.
Lavoravo nel marketing di un’azienda di gioielli. Ero circondata da colleghi giovani e avevo un contratto a tempo indeterminato, ma io non ero felice e volevo esserlo.
La consapevolezza di voler cambiare lavoro ce l’avevo da un bel po’ e avevo già cambiato altri lavori in precedenza, ma durante il covid è stato chiaro che non si trattava più di cambiare azienda. In quel periodo, mi ripetevo spesso: “la vita è una”; “io non sono il mio lavoro”.
Quello che il coaching mi ha permesso di raggiungere è stata una visione chiara sulle mie credenze e sui blocchi che fino a quel momento mi avevano trattenuta, una sana fiducia nelle mie capacità e nel futuro lavorativo che avrei incontrato e creato, il coraggio di saltare senza rete ma con prudenza e progettualità, la perseveranza di acquisire nuove competenze e fare esperienze formative.
Il mio responsabile del tempo mi guardò dicendomi: “e se non dovessi farcela?”. Risposi con un sorriso e dissi: “tornerò qui e chiederò di essere riassunta”. Ero serena perché sapevo che non si trattava di una sfida con me stessa o con il mondo. Non stavo scappando, non ero entrata in competizione con le mie ambizioni ed ero sicura della scelta intrapresa. Quando lesse la determinazione nei miei occhi mi raccontò di quando, durante una notte in barca a vela, in piena tempesta, lui e un suo caro amico erano riusciti a cavarsela e a ritrovare la rotta. Apprezzai molto la metafora, perché mi aveva restituito un’immagine calzante “dell’avventura” in cui mi stavo lanciando e le aveva riconosciuto un bel finale. Sono ancora grata per quella chiacchierata e per quel “in bocca al lupo” implicito che ho ricevuto.
Oggi mi occupo di coaching a più livelli: personale, aziendale e di orientamento. Insegno, collaboro con altri professionisti e con organizzazioni di varia natura. Considero il mio multi-lavoro la tavolozza del pittore dove il coaching è la tavolozza e i vari colori le varie forme che assume.
Le difficoltà non sono mancate e neppure lo scoraggiamento e l’incertezza. Tutto è sempre in via di costruzione e, in ogni progetto o con ciascun cliente, non vi sono garanzie di riuscita. Si percorre una strada in salita in cui non mancano le soddisfazioni.
Quando assisto un/a cliente in un momento di scelta lavorativa, una delle cose che mi colpisce maggiormente è il fatto che inizialmente sembra pensare che non ci sia la possibilità di migliorare il lavoro in cui è o di cercare altro fuori. Tuttavia, dandoci un po’ di tempo, entrambe/i scopriamo con sorpresa che il cambiamento (che non dev’essere per forza lasciare il lavoro), si cela tra le pieghe della paura e delle resistenze.
Nella maggior parte dei casi, è possibile cambiare rispettando le nostre necessità materiali e il nostro benessere personale.
Uno dei concetti che si sposa meglio con il desiderio di lottare per il proprio benessere è “la volontà di senso” di cui parlava Viktor Frankl, che vedeva l’uomo diretto verso il “senso” e gli riconosceva la grande capacità di conservare una traccia di libertà e di indipendenza mentale anche in situazioni di grande stress e difficoltà.
Del resto, come scriveva lo scrittore J.A. Shedd: “Una nave in porto è al sicuro ma non è per questo che le navi sono state costruite.”