Quello dei 100 giorni è ritenuto convenzionalmente un traguardo temporale sufficiente per tracciare un primo, approssimativo bilancio dei fenomeni politici – come una presidenza o un pontificato.
Una soglia sufficiente potrebbe esserla anche per una protesta di piazza che non accenna a placarsi, come quella che da più di 3 mesi (102 giorni al momento in cui si scrive) infiamma le piazze e le strade delle principali città dell’Iran, e che sono state occasionate dalla morte della giovane Mahsa Amini perché, a detta della polizia morale, “indossava male il velo” (16 settembre).
Si tratta non a caso della più lunga serie di manifestazioni antigovernative dalla famigerata rivoluzione islamica del 1979, genesi dell’odierna teocrazia islamista di Teheran – che conosce bene, avendola sfruttata, la forza dirompente della piazza. E infatti la teme, come dimostra l’impetuoso bollettino di morti, feriti e arresti degli ultimi 3 mesi: le ONG parlano di oltre 570 manifestanti morti, tra cui una settantina di bambini. Due dei decessi sono avvenuti per esecuzione capitale dopo processi-farsa, e presto altri 26 seguiranno la stessa sorte dopo una serie di inenarrabili torture. Assai più vasta la massa di arrestati, quantificabile in un paio di decine di migliaia di manifestanti.
Beninteso, non è la prima volta che l’Iran sperimenta eruzioni di scontento popolare: era già accaduto tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018, e di nuovo nel novembre 2019. Ma questa volta sembra tutto molto diverso: a scendere in piazza non è solo un gruppo sociale, una minoranza religiosa, o i sostenitori dell’opposizione – bensì un amalgama composto da tutte le sfere sociali, etniche e religiose. E ciascuno di loro sembra avere un unico obiettivo: la caduta del regime degli ayatollah.
A guidare la protesta sono in particolare le donne, che hanno coniato uno degli slogan della sollevazione: “Donna, vita, libertà“. Affianco a loro la generazione Z – quella dei giovanissimi -, che nel più classico dei gesti rivoluzionari ha preso emblematicamente a bruciare il velo, simbolo della generazione dei padri e dell’oppressione religioso-misogina, spesso davanti agli occhi sconcertati dei chierici.

Sinora le autorità di Teheran, dal presidente Ebrahim Raisi alla guida suprema Ali Khamenei, hanno sposato la retorica della “ingerenza straniera”, additando a non meglio precisate forze oscure occidentali (velato riferimento agli USA e all’Europa atlantista) il tumulto in corso e promettendo dure ripercussioni ai facinorosi.
La tempistica delle manifestazioni – e del conseguente sdegno internazionale – non sarebbe però potuta essere peggiore per Teheran. In estate sembrava infatti ormai questione di settimane – se non di giorni – la formalizzazione di un accordo sul nucleare con gli USA, che avrebbe portato alla revoca delle dure sanzioni occidentali sull’economia iraniana in cambio di limitazioni al programma nucleare di Teheran.
Un accordo che però adesso è “morto”. Parola del presidente statunitense Joe Biden, che si è lasciato sfuggire la previsione nel corso di uno scambio di battute privato tra l’inquilino della Casa Bianca e alcuni attivisti anti-regime tenutosi lo scorso novembre in California, e riemerso qualche giorno fa dopo la pubblicazione di un video esclusivo. “Presidente Biden, annuncerà che il JCPOA (l’accordo sul nucleare iraniano, nda) è morto? Può annunciarlo?“, chiede una donna a Biden mentre questi le stringe la mano. “È morto, ma non lo annunceremo. È una lunga storia“, risponde laconicamente il commander-in-chief.
Ci ha pensato poi – come spesso accade – lo staff della Casa Bianca a circostanziare le affermazioni tranchant di Biden. “I commenti del Presidente sono del tutto coerenti con quanto stiamo dicendo sul JCPOA, che non è la nostra priorità in questo momento”, ha dichiarato martedì un portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, aggiungendo: “Non ci aspettiamo un accordo nel prossimo futuro”.