Perché l’invasione dell’Ucraina ci ricorda qualcosa? E cosa ci ricorda?
Scavando nei nostri ricordi più vicini, scopriamo che ci ricorda quello che è successo solo pochi mesi fa, in Afghanistan.
Anche allora si diceva che non poteva assolutamente succedere ciò che al contrario è accaduto. Abbiamo visto l’ondata dei talebani spargersi senza resistenze, così come oggi vediamo i carri armati russi entrare a Kiev, simili a schiacciasassi (o schiacciamacchine).
E pensiamo. Ma davvero ci hanno detto che l’Ucraina era un paese due volte l’Italia e che questo disastro non sarebbe successo?
E così, pensiero, dopo pensiero, ci viene in mente un’altra domanda. Non è che l’Afghanistan sia stata la prova del fuoco? Una donna bellissima e intelligentissima che frequenta saltuariamente New York l’aveva previsto per gli amici (e per i governi di cui è consulente). Dopo l’Afghanistan, l’Ucraina. Aggiungendo: e dopo l’Ucraina,Taiwan. Speriamo di no, le rispondevano ieri sera.
Ma è certo che, per gli Europei, nulla dopo la seconda guerra mondiale è paragonabile all’invasione dell’Ucraina. Ci sono state altre guerre – come nell’ex Jugoslavia – ma non direttamente condotte da una super-potenza. Ci sono state invasioni, come in Crimea. Ma non verso un paese delle dimensioni e della storia dell’Ucraina (di cui la Crimea – è bene ricordarlo – era una parte). Ciò che sta accadendo purtroppo ci riporta a eventi del passato che vorremmo dimenticare, alla base dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Ciò che sta accadendo è forse la ferita più profonda inferta all’Europa dal secolo scorso.
Perché l’Europa non è (solo) la UE. L’Inghilterra è certamente Europa. E allo stesso modo l’Ucraina è Europa. E con forza va detto che anche\ la Russia è Europa. Ed è davvero paradossale che più l’Europa è politicamente debole, fatta di stati che parlano un po’ ognuno per conto proprio (e lo stesso vale per la NATO), più dobbiamo riconoscere che è una calamita straordinaria. Un polo d’attrazione capace di richiamare a sé speranze e guai, nuovi membri desiderosi di entrarci e vecchi membri che non aspettano altro che farla fuori.
Così quello che sta accadendo in Ucraina, in un certo senso sta accadendo in Italia. E non solo perché dalle basi NATO partono uno dopo l’altro gli aerei, ma per una mera questione di chilometri. Avete presente la distanza tra Kiev e Venezia? Se vi affidate a Google Maps, scoprite che la si percorre in macchina in meno di un giorno (in condizioni normali): sono 1840 chilometri. Esattamente la stessa distanza che c’è tra Venezia e Madrid (1836 Km).
E perché? perche? perché?
I perché si accavallano in questa vicenda.
Perché i russi hanno subito occupato Chernobyl?
Ce l’eravamo quasi dimenticata quella storia del 1986, quando si disse agli abitanti del Nord Italia: state tranquilli, la nube nucleare proveniente da una centrale disastrata e fuori controllo, passerà per l’Europa del Nord e non toccherà la penisola. Le vostre regioni saranno sfiorate ma non colpite. Poi si disse: purtroppo attraverserà il Veneto. Poi si scoprì che la nube radioattiva si era diffusa molto più ampiamente.
Risultato: i nostri prodotti biologici finirono al macero, si evitò l’insalata come la peste, il latte venne acquistato solo se era a lunga conservazione e dunque precedente all’incidente, e tutti guardarono con sospetto il formaggio fresco, lasciandolo sui banchi. I funghi parevano veleno puro. E allora – ci domandiamo – perché i Russi oggi vogliono il controllo di Chernobyl, con le sue polveri radioattive sepolte sotto il sarcofago creato decenni fa? Cos’è, una nuova edizione della Mummia? Il morto che rinasce? Un’arma di ricatto verso i governi occidentali? Una bomba nucleare che resta sospesa sulle nostre teste senza neppure avere il bisogno di esplodere? Perché Putin può essere anche paranoico, ma certo conosce bene gli strumenti della comunicazione. Una bomba nucleare fa più male se le sue radiazioni sono già lì pronte, senza nessuna telecamera che possa registrarne il terribile fungo.
I confini dunque sono davvero diventati fluidi. I confini dell’Ucraina, certo, ma anche quelli dell’Europa. Putin può colpire gli Europei senza neppure invaderli formalmente, con vecchie polveri e nuovi strumenti informatici.
E loro? Gli Europei, cosa possono fare?
Scendere in piazza è una forma straordinaria di civiltà trans-nazionale, che può persino trasmettersi in Russia. Putin non può essere abbattuto dall’esterno, ma dall’interno, a meno che non si voglia un bagno di sangue. Devono essere i Russi, non Biden o la Von der Leyen o Draghi che decidono che il suo tempo è finito. Lui lo sa certamente, e per questo i prossimi mesi, forse i prossimi anni saranno durissimi, ma si giocheranno sul piano della comunicazione, non solo su quello delle armi, di qualsiasi tipo siano.
In questo senso le sanzioni economiche saranno meno inutili di quel che appaiono, soprattutto se riusciranno a colpire un’oligarchia russa di cui si colgono i primi segnali di insofferenza.
Ma le sanzioni non bastano e rischiano anzi – so di dire forse una bestialità – di essere troppo dure se non bilanciate. Dobbiamo stare attenti a mantenere alcuni canali di comunicazione aperti. Nessuno vuole curare un corpo tagliandone una parte vitale. La guarigione sarebbe la morte.
Così, per favore, ricordiamoci che l’arte è l’ultimo legame che deve essere reciso, non il primo. Sarebbe interessante capire perché mentre nessun politico, giornalista, finanziere, industriale è stato colpito e allontanato per i suoi legami con Putin, subito la censura si è rivolta alla ruota più preziosa e debole del carro: l’arte appunto. Valery Gergiev non dirigerà i Wiener Philharmoniker nella tournée negli Usa che vede l’orchestra austriaca in programma alla Carnegie Hall. E forse non dirigerà neppure a Milano dove gli è stato chiesto dal sindaco Sala di firmare una dichiarazione che dovrebbe esser chiesta a tanti altri: un atto sostanzialmente di censura contro il governo russo.
Certo, gli artisti sbagliano, e hanno un ruolo simbolico importante, anche se non riescono a lavorare – magari per il Covid – e noi non ci ricordiamo di loro. Se c’è una guerra, o una specie di guerra, gli artisti sono le prime vittime.
Non aspettiamoci però dagli artisti la caduta di Putin. E invece prepariamoci ad affrontare, Europei e non Europei, una crisi umanitaria che per la prima volta arriva dal cuore dell’Europa con questa forza. L’Unione Europea ha già accolto negli ultimi giorni decine di migliaia di ucraini fuggiti al di là dei confini nazionali in cerca di aiuto e di rifugio.
L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ci dice che 7,5 milioni di persone potrebbero essere costrette ad abbandonare le proprie case e che circa 18 milioni di ucraini potrebbero aver bisogno di aiuti umanitari.
Aggiungiamo a questo scenario chi è in Ucraina senza essere ucraino: per esempio 70.000 studenti.
Non stupisce che la Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa abbia annunciato che la prossima settimana pubblicherà un appello straordinario per la crisi ucraina del valore di 50 milioni di franchi svizzeri, a sostegno della Croce Rossa.

Tutti siamo Ucraini, tutti siamo Europei. Ripetiamocelo, perché non è solo bello, ma importante ricordarselo, oggi e domani.
PS. Fifth Avenue, uno dei condomini più belli di New York, affacciato su Central Park. La padrona di casa –stella ben conosciuta della società internazionale – offre una cena improvvisata, che ci porta con l’immaginazione a Mosca. Tra panna acida, blinis, salmone affumicato, erba cipollina, compaiono magnifiche coppe di un salmone russo che non sa di sale, ma ha un delicatissimo, vellutato sentore di mandorle.
Coraggio, ci dice l’ospite di casa. mentre ci sprona ad attingere a quel pozzo di san Patrizio, chissà se domani ce ne sarà ancora? Il solista seduto al medesimo tavolo esita però. Sulla sua fronte si vedono ancora i segni di una giornata trascorsa in condizioni di shock: improvvisamente 15 ingaggi cancellati, a partire da San Pietroburgo.
Anche questo è Europa.