In patria, è tra i bersagli preferiti del ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini e dei suoi seguaci, e, per la sua indefessa denuncia della criminalità organizzata e della retorica anti-migranti, è considerato tra gli intellettuali più divisivi del nostro tempo. A New York, all’indomani della Festa della Repubblica, Roberto Saviano è tornato a parlare di migrazione e ONG, in un evento organizzato da Emergency USA, davanti a un folto pubblico di italiani e americani. Solo pochi giorni prima, Salvini, in un video su Facebook, gli aveva dedicato – come di consueto – “un grosso bacione”, e aveva annunciato il suo piano di “revisione delle scorte”. E qualche ora fa, è giunta la notizia che il Consiglio d’Europa ha inserito l’ultima minaccia del titolare del Viminale a Saviano nella sua piattaforma “per promuovere la protezione del giornalismo e la sicurezza dei giornalisti”. Non un buon segno – viene da pensare – per lo stato di salute della nostra democrazia.
Non si può dire, insomma, che il clima sia disteso, quando si parla di Roberto Saviano. Basti dare un’occhiata ai commenti riversatisi sotto il post di Facebook che annunciava la sua partecipazione all’evento di Emergency USA. Oltre ai molti apprezzamenti e agli incoraggiamenti di chi lo sostiene, come ormai d’uso c’è anche chi lo accusa di parlare di migranti ma di possedere un “attico a New York”, chi gli attribuisce il “merito”, per così dire, del grande successo elettorale di Salvini, e chi, sarcasticamente, lo incoraggia a continuare a scrivere e a denunciare pubblicamente, “così la Lega arriva al 100%”.
Eppure, la sua è rimasta una delle poche voci a sfidare, ogni giorno, la propaganda che oggi va per la maggiore. Lo ha fatto, di recente, anche con un libro, dall’eloquente titolo In mare non esistono taxi, un racconto ad immagini contro le fake news e le fallacie retoriche della narrazione di destra sulle migrazioni e contro la criminalizzazione della solidarietà. Nella speranza, forse, che, se le parole possono essere di questi tempi facilmente spossate e illanguidite da altre parole, dirette più alla pancia che al cuore e al cervello, le immagini no: ti entrano dentro, e lì rimangono. Così ha fatto durante il suo intervento a New York: il racconto si è accompagnato alle foto più rappresentative di una crisi che è insieme umanitaria, valoriale, linguistica e mediatica, e che ha visto il progressivo rovesciamento, nell’opinione pubblica, di chi salva vite in mare da eroi in trafficanti. “Le prime barche che salvavano esseri umani allo sbarco ricevevano applausi”, ricorda lo scrittore, riportando la nostra memoria a tempi che paiono oggi tristemente irrecuperabili.
Così, si succedono l’una dietro l’altra la foto-simbolo della crisi migratoria europea, cioè quella del corpo senza vita del piccolo Aylan Kurdi, riverso su una spiaggia turca, che, per modo di vestire e carnagione, è così drammaticamente simile ai nostri figli; l’immagine di Josefa, migrante accusata dalla propaganda di destra di essere una figurante, per via di quello smalto rosso alle unghie che invece, ha chiarito lo scrittore, è un atto di cura dedicatole da chi l’assisteva, per ricordarle che “il corpo non è solo dolore”; e ancora, la fotografia che mostra le gambe dei migranti, che spesso viaggiano sui tubolari dei gommoni, ustionate gravemente da una miscela letale di cherosene che fuoriesce dal motore, acqua salata e sole.
Eccola qui, la “pacchia” di cui tanto parla il ministro dell’Interno. Ma come siamo arrivati a questo punto, come siamo arrivati ai “taxi del mare”? “Serviva rompere il senso di colpa nel vedere scene di disperazione”, spiega Saviano, “e poter dire allo stomaco che si contorceva: non ti preoccupare, non è colpa tua, è tutta un’operazione per fregarci, sono le élite che vogliono prendere schiavi”. Schiavi “belli, possenti, con il cellulare”. Ed ecco un’altra menzogna: il cellulare, lungi dall’essere la prova regina della cospirazione, è invece l’unica àncora di salvezza per i migranti.
Perché quando ti cattura la Guardia Costiera Libica – “trafficanti che hanno indossato la divisa” a cui l’Italia ha appaltato il “salvataggio”, per così dire, dei migranti nel Mediterraneo –, non ti rimanda nel tuo Paese d’origine. No: ti rispedisce nei campi-lager libici, quelli che l’ONU continua a denunciare come luoghi di torture e violazione sistematica dei diritti umani, e poi chiede soldi per farti tornare in patria. Le cifre, spiega lo scrittore, si aggirano intorno ai 5000-8000 euro. E se non hai con te un telefono, perdi l’unica possibilità che hai di salvarti. Intanto, nel Mediterraneo, la Marina Militare “non si sente più libera di agire — mi smentiranno, ma è così —”.
Nel suo intervento, Saviano ha smontato tante altre fallacie della retorica anti-migranti. Dall’argomento “non facciamoli arrivare perché finiscono schiavizzati nei campi di pomodori” – ma se il problema è il caporalato, allora si interviene sulla filiera –, a “non possiamo accogliere tutta l’Africa” – ma il 98% della popolazione europea è nativa –; dalla questione della mafia nigeriana – ma nessuna organizzazione criminale straniera potrebbe agire senza il benestare di quelle nostrane –, fino al recentissimo luogo comune “sono diminuiti i morti in mare” – no, ci sono solo meno testimoni –. Per il giornalista, inoltre, anche chi confonde il salvare vite con l’accoglienza sta truccando le carte: “L’accoglienza è un tema politico, c’è tempo per discuterne. Per salvare vite, invece, non c’è tempo. Se inizi a tergiversare, c’è morte”.
Ma perché continuare a parlarne, continuare a denunciare, in un momento storico in cui il messaggio sembra condannato, costantemente, a infrangersi contro la propaganda dominante, e per certi versi ad alimentarla? Francesco Guccini, del favoloso Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, cantava: “Nel mondo oggi più di ieri domina l’ingiustizia / ma di eroici cavalieri non abbiamo più notizia; / proprio per questo, Sancho, c’è bisogno soprattutto / d’uno slancio generoso, fosse anche un sogno matto”. Ma più che di una epica e rocambolesca battaglia contro i mulini a vento, qui si tratta di testimoniare, forse ancor più per il futuro che per il presente. “Il numero di persone coscienti è sempre minore”, ha osservato lo scrittore. Che ha confessato di aver ricevuto tante volte il consiglio, anche da persone care, di desistere: “Scegli un’altra strada, gli fai un favore. È quello di cui lui vuole si parli”. Ma la tattica, la strategia si usa in politica, non quando si “ha bisogno di raccontare”. Quando questo accade, testimoniare significa “tenere una verità lì, proteggerla”. È un’urgenza paragonabile a quella di chi lavora, ancora oggi, nelle Ong: “Scegli di partire, perché se decidessi di stare fermo ti sentiresti mancante”.
La responsabilità, in questo senso, è di tutti. “Possiamo agire sulle persone che abbiamo intorno. Quello è testimoniare. Chi ti vuole bene, ascoltando le informazioni, inizia a fidarsi, e probabilmente comincia a girare lo sguardo”. Soprattutto, quando si renderà conto – perché è solo questione di tempo – che tutte queste bugie non gli hanno migliorato la vita. L’esortazione che lo scrittore lascia al suo pubblico newyorkese è a “capire che probabilmente possiamo intervenire dentro la nostra vita più di quanto immaginiamo”. Un’esortazione a “non mollare, perché ogni singola nostra riflessione possa incidere”.
Noi della “Voce” abbiamo chiesto al giornalista cosa pensasse della tesi che lo storico corrispondente di “Repubblica” Federico Rampini ha espresso nel suo libro-processo alla sinistra, e di cui vi abbiamo parlato su questo giornale. Per Rampini, cioè, uno dei più grandi errori della sinistra è stato quello di abbracciare la causa dell’immigrazione, abdicando ai “penultimi” a favore degli “ultimi”. Che ne pensa, di questo, Saviano? “Conosco il libro di Rampini, e ne condivido la riflessione sui grandi gruppi del web, che sono stati accolti come rivoluzioni civili e umane progressiste, e invece spesso hanno saccheggiato diritti, e hanno costruito piattaforme di evasione: le grandi compagnie del mondo hanno sede dove i grandi gruppi criminali del mondo nascondono i loro soldi”, ha osservato lo scrittore. La sinistra internazionale “non ha saputo dare regola a queste aziende. Non solo: la grande colpa è permettere l’esistenza oggettiva di canali di riciclaggio talmente grandi che impediscono al singolo lavoratore di sentirsi in un mondo giusto, nel momento in cui lui paga il 60% di tasse, e la grande compagnia il 5%, che potrebbe persino essere giusto se, in cambio, ci fossero interventi sul territorio”.
Ma “quando si discute di ultimi e penultimi, non sono d’accordo per nulla”. “I diritti sono universali”, e “nel momento in cui pensi che trattare la vicenda Rom sia un modo per trascurare gli operai licenziati di Mercatone Uno, stai ragionando su un equivoco”. Perché continuando a tralasciare quella vicenda, “consegni migliaia di persone alla criminalità e alla miseria, e l’altra vicenda, quella di Mercatone Uno, non ne trae alcun beneficio”. Gli errori della sinistra, “e ce ne sono stati”, ha proseguito Saviano, “non sono errori dati dal prediligere l’ultimo contro il penultimo. Falsissimo: così si rischia di alimentare la propaganda”. “Non c’è questa strategia comunicativa furba nel dire: siccome abbiamo difeso mediatamente il migrante, ci siamo dimenticati il disoccupato italiano. È molto più grave: non c’è stata una visione economica. Mettere contro ultimo e penultimo, per me, è pericoloso”.
Per Saviano, le responsabilità della sinistra al Sud sono state gigantesche. Il giornalista spiega la grande astensione al Sud alle Europee con il fatto che nessuno, in quel tipo di consultazioni, “ti compra il voto”. Inoltre, “alla criminalità non importa nulla” di quelle elezioni, “e quindi non c’è stata alcuna pressione”. “È rischiosissimo sostenere che, se tu stai battagliando perché alle mense scolastiche ci siano anche i bimbi migranti, stai dimenticando il figlio dell’operaio. Non è così, anzi: il contrario. Nel momento in cui rafforzi il diritto, stai rafforzando il diritto di tutti”.
Rispondendo a una domanda sul rapporto tra l’emigrazione, di ieri e di oggi, e l’immigrazione, Saviano ha ricordato che siamo “il secondo Paese per emigranti subito dopo la Cina, in numeri relativi”. “Dall’Italia, ogni qualvolta si aprivano le quote in Sudamerica, migravano milioni di persone. Ho sentito dire più volte: sì, però noi andavamo a lavorare. Questo”, ha spiegato, “perché la propaganda fa vincere l’idea che l’africano o lo slavo arrivino per rubare. Ma quando, in questa città, arrivavano gli italiani, l’assioma era: ‘Vengono a stuprare le donne bianche americane’; nel processo Sacco-Vanzetti ci fu addirittura il riferimento all’alito che sa di aglio, ai ‘serpenti di pane’, come chiamavano gli spaghetti”. Un bagaglio di cui gli italiani sono consapevoli, e che in passato sono stati in grado di riscattare, ad esempio con il modello Riace, in cui tanti emigrati, ben consapevoli delle difficoltà incontrate dai migranti, hanno lasciato le proprie case inutilizzate ai nuovi arrivati. Ma la propaganda è stata talmente forte “che ha fatto dimenticare che l’accusa sulla violenza e sul crimine gli italiani se la portano appresso da secoli, il marchio infamante di ‘italiano uguale mafioso’ è vivo ancora, e nonostante questo, nonostante ci sia stato pregiudizio ovunque, proprio noi abbiamo riprodotto questo pregiudizio sui migranti che arrivano in Italia”.
Lo scrittore ha anche ricordato come “permettere al migrante di diventare il nuovo nemico” abbia dato “cittadinanza reale a moltissimi meridionali immigrati italiani”. Come se ora avessimo trovato un nemico peggiore, il vero responsabile del male e del caos. “Come se una malattia ti liberasse il corpo nel momento in cui contagia un altro”, ha chiarito Saviano.
L’esercizio di memoria diventa allora fondamentale: una memoria viva, rivolta al presente e al futuro. Un esercizio complementare a quello della testimonianza. “La testimonianza, in queste ore, è importante”, ha affermato Saviano. “Contro la propaganda non si può nulla nell’immediato, ma, nel tempo, agisce in uno spazio che ci permette di accumulare informazioni vere”, e di salvarle dal bullismo dominante e da ogni forma di tattica. Perché in fondo, come diceva Hannah Arendt, “i vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente”. Soprattutto, “qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. E perciò nulla può mai essere praticamente inutile, almeno non a lunga scadenza”.