A più ventiquattro ore dalla fine del vertice NATO di Bruxelles, è ora di tirare le somme. Lo abbiamo fatto provando ad analizzare con più freddezza alcuni temi cruciali emersi durante il vertice, evitando così di essere travolti dalle cronache, spesso superficiali, che hanno raccontato l’evento in queste ore.
Come di consueto, infatti, il passaggio dell’uragano Trump ha portato la sua immancabile dose di polemiche, lasciando sul campo grande confusione. Appena messo piede nel Vecchio Continente, il presidente americano ha cominciato a prendere a clavate gli alleati europei, paventando addirittura l’abbandono dell’Alleanza da parte degli Stati Uniti (minaccia, questa, poco credibile) e insistendo sulla necessità che gli altri membri della NATO “contribuiscano di più” alle spese per la difesa comune, devolvendo come da accordi il 2% del loro Prodotto Interno Lordo.
Il problema della suddivisione degli oneri economici, caro a Trump, si era già manifestato durante la presidenza del suo predecessore, tanto che Barack Obama aveva definito senza mezzi termini “scrocconi” gli europei. Ora, il suo successore dalla bionda chioma pretende che paghino gli arretrati, con tanto di interessi.
Dopo una turbolenta riunione la situazione è rientrata e il presidente si è detto soddisfatto del risultato complessivo del vertice, da cui è riuscito a scucire 33 miliardi di dollari in più dagli alleati. In realtà, però, sono ancora una volta affiorate le profonde tensioni tra l’amministrazione americana e i partner europei, sintetizzate efficacemente dal ministro della difesa della Danimarca, Claus Hjort Frederiksen: “è difficile decodificare quale tipo di politica stia promuovendo il presidente americano. C’è una completa imprevedibilità in questo senso”, ha affermato il danese.
Con un pizzico d’ironia, rassicuriamo da queste colonne il ministro. La ragione di tali incomprensioni è semplice: al di la della banale questione del “conto” da saldare, in questo momento Trump non sa che farsene della NATO. Detto in altri termini: Frederiksen non vede alcuna strategia perché questa, semplicemente, non esiste.
Tale disinteresse è reso ancor più evidente dall’insofferenza che il nuovo inquilino della Casa Bianca nutre verso qualsiasi forma di multilateralismo, diametralmente opposto al suo modo di concepire la politica estera. Quest’ultima ruota tutta sui rapporti bilaterali, nell’ambito dei quali gli Stati Uniti possono far sentire maggiormente il proprio peso contrattuale.
Ad essere onesti, la crisi della leadership atlantica a stelle e strisce non è solo conseguenza di un presidente sui generis come Trump.
I problemi della NATO vengono da lontano e The Donald li ha semplicemente resi evidenti. L’Alleanza è stata concepita nel 1949 come argine all’espansione del comunismo sovietico in Europa occidentale e la sua formidabile presenza ha garantito per più di quarant’anni la pace e la stabilità del Vecchio Continente, “armatissimo e liberissimo”.
Dalla caduta del muro di Berlino, però, non sappiamo bene in cosa si sia trasformata. L’unità e la coesione, prima garantite da un minaccioso nemico comune, sono sfumate nel tempo, nonostante il coinvolgimento in alcune missioni militari a supporto degli americani (come quella del 2001 in Afganistan).
Oggi, ci ritroviamo di fronte a un’alleanza priva di uno scopo chiaro, in cui convivono da un lato i paesi baltici (che ancora considerano la Russia una seria minaccia per la loro stessa esistenza) e dall’altro potenze come la Germania e la Turchia, che mantengono stretti rapporti commerciali con Mosca sbilanciati su un considerevole acquisto di gas russo.
Non è un caso che Trump abbia preso esplicitamente di mira il governo tedesco proprio sul tema della sua dipendenza energetica da Mosca.
Quello dell’approvigionamento energetico è uno degli argomenti più spinosi: il governo americano guarda infatti con aperta ostilità alla costruzione del gasdotto Nord Stream 2, che entro il 2020 porterebbe al raddoppio della quantità di gas naturale trasportato dalla Russia alla Germania e, tramite questa, al resto del continente europeo.
L’amministrazione Trump (ma con stile e modi diversi, anche quella di Barack Obama) ritiene che l’infrastruttura in questione costituisca un assist che asseconda le manie espansionistiche di Putin allontanando la risoluzione dell’annosa questione ucraina.
Gli USA preferirebbero di gran lunga il gasdotto transadriatico (Tap), che partirebbe dall’Azerbaijan per attraversare la Turchia e la Grecia e approdare in Italia. A tal proposito, se avesse il coraggio di sganciarsi da Berlino e abbracciare Washington, Roma ne trarrebbe indubbi vantaggi. Vedremo se il nostro governo coglierà quest’opportunità nel corso della prossima visita del premier Conte alla Casa Bianca.
Non è tuttavia solo il problema energetico a contrapporre Wasghington e Berlino: tra le due potenze è in corso da tempo un braccio di ferro economico, inevitabile di fronte a un pauroso squilibrio tra una nazione in forte deficit (come gli Stati Uniti) e una con un surplus eccessivo (come la Germania).
Tradotto: la Germania è un paese creditore, che fonda la propria economia su eccessive esportazioni (facendo concorrenza sleale e rifiutandosi tra l’altro di correggere tale squilibrio), mentre gli USA sono al contrario un paese debitore, il quale subisce da tempo sul proprio sistema industriale le conseguenze negative delle politiche aggressive dei governi tedeschi.
Anche in questo caso, lo scontro (deflagrato durante la presidenza Trump) era già nell’aria, tanto che nell’aprile 2016 (prima della sua elezione), il Dipartimento del Tesoro americano stilò un documento nel quale individuava nella Germania uno degli stati responsabili di politiche commerciali aggressive e pericolose per la stabilità del sistema mondiale.
Insomma, in un contesto fatto di doppi giochi tedeschi, confusione strategica americana e tensioni economiche covate da tempo e ora esplose, l’incomunicabilità tra gli alleati della NATO è solo il sintomo più evidente della grande crisi dell’occidente, messa in luce dal provocatorio atteggiamento trumpiano. Trump (così come il suo predecessore in passato) non sembra avere la lungimiranza di risolvere in modo definitivo tale crisi.
Nel frattempo, abbandonata Bruxelles, il presidente è volato in Gran Bretagna per la sua prima visita di stato nell’isola, scatenando anche li fuoriose polemiche. In un’intervista concessa al quotidiano britannico The Sun, l’inquilino della Casa Bianca ha criticato duramente il modo “troppo soft” con cui la premier inglese Theresa May sta gestendo la Brexit, minacciando di mandare all’aria i progetti di un accordo commerciale bilaterale con tra USA e UK.
Molto probabilmente, nelle prossime ore l’allarme rientrerà e Trump reciterà il solito copione dicendo di avere delle “relazioni veramente buone” con la May, mandando in tilt esperti e analisti. Poi, il 16 luglio, lo aspetta l’incontro con Vladimir Putin, che i grandi giornali a stelle e strisce hanno già in programma di demolire, a prescindere dal suo effettivo esito. Vedremo come andrà a finire.