Cleveland, the day after. Ora che la Convention repubblicana è terminata è giunto il momento di chiedersi cosa ci ha raccontato, e di domandarsi quale potrebbe essere la sua eredità nel futuro politico americano.
Per tentare di rispondere a queste domande, però, dobbiamo mettere da parte le montagne di articoli gossipari che abbiamo dovuto digerire in queste ore. Tanto, troppo è stato scritto su vicende delle quali non rimarrà nulla nella memoria degli anni a venire: dal discorso copiato di Melania Trump al gesto con cui Laura Ingraham (commentatrice radiofonica e sostenitrice del tycoon) ha salutato la folla, subito scambiato per un fantomatico “heil” dalla stampa idiota.
Ecco, di questi ridicoli polveroni non rimarrà nulla. A rimanere sarà invece l’immagine di un partito in cui è avvenuta una incredibile scalata da parte di un personaggio controverso e fuori dagli schemi, che ha rotto molti dei dogmi costruiti dal movimento conservatore da 40 anni a questa parte riuscendo a raccogliere quasi 14 milioni di voti (un vero record nella storia del GOP) ricostruendo un nuovo rapporto con la working class bianca, per decenni base fedele ai repubblicani.
Per farlo, ha usato una efficacissima retorica populista emersa in modo cristallino durante il lungo discorso con il quale giovedì ha accettato la nomination, in cui ha dipinto a tinte fosche l’immagine di un paese alla deriva, violento e corrotto, presentandosi come una sorta di supereroe difensore dei deboli e della classe lavoratrice e scagliandosi contro lobbisti, élite e ovviamente Hillary Clinton, descritta come un burattino in mano all’establishment. L’espressione “law and order” è stata ripetuta innumerevoli volte dal tycoon, autonominatosi tutore ufficiale della legge in uno speech tutto incentrato su se stesso (altra novità rispetto a quanto siamo abituati in occasioni del genere).
Altro particolare interessante: uno dei pochi politici citati è Bernie Sanders, ai cui ex elettori Trump punta ormai in modo esplicito.
Non un cenno a temi come l’aborto, i matrimoni gay, o altre questioni sulle quali negli ultimi anni si è definita l’identità dei conservatori, ma continui riferimenti al “sistema truccato”, all’incompetenza della classe dirigente, ai pericoli dell’immigrazione e del terrorismo internazionale. E poi il rifiuto categorico di accordi di libero scambio, colpevoli di impoverire i lavoratori, e l’annuncio di riforme per la creazione di posti di lavoro e investimenti sulle infrastrutture.
Certo, come al solito è tutto vago e permeato da pesante demagogia, ma sarà proprio questa superficialità a costituire il punto di forza quando Donald affronterà Hillary nei futuri attesissimi dibattiti televisivi, nei quali non fornirà alla sua avversaria bersagli da colpire o dati da smentire.
Insomma, di fronte alle inquietudini dell’America del terzo millennio, il GOP degli ultimi epigoni di Goldwater e Reagan, basato sull’esaltazione del liberismo economico, l’avversione per il governo federale e la pesante influenza della destra religiosa è diventato minoranza. A relegarlo ai margini ci ha pensato una star dello show business, un milionario newyorkese noto per le sue stravaganze e per la sua oratoria spiccia, al quale del “true conservatorism” non importa un fico secco.
E a quanto pare, non importa nemmeno alla base, che non ha esitato a coprire di fischi Ted Cruz (uno tristemente convinto di essere il legittimo erede di Reagan) quando questi si è rifiutato di dare l’endorsement al magnate.
Il fatto che ad affiancare Trump sia un running mate ultraconservatore non deve ingannare: la scelta di Mike Pence, autodefinitosi nell’ordine “cristiano, conservatore e repubblicano”, era il minimo che Trump potesse fare per salvare le apparenze tranquillizzando i pezzi grossi del partito. Per un megalomane come The Donald, il governatore dell’Indiana conta meno di zero.
In questa fase, il Grand Old Party si è dunque trasformato da partito ideologico a partito personale, i cui destini sono ora legati al futuro del tycoon. La presunta unità messa in scena nel reality di Cleveland è in realtà fragilissima e destinata a rompersi in mille pezzi nel caso la sua campagna dovesse fallire.
Perché intendiamoci, se Trump è stato capace di stravolgere il partito, non ha nemmeno lo spessore politico per creare un movimento che gli sopravviva, come invece sembra essere in grado di fare Bernie Sanders sul fronte democratico.
Nel mondo di Trump esiste solo Trump, e ovviamente la sua famiglia, una delle armi segrete del suo successo. Dietro al trionfo di Donald ci sono infatti i tre figli della prima moglie: Donald Jr., Eric e soprattutto Ivanka, il suo braccio destro.
Se il newyokese dovesse vincere la presidenza, è sicuro che la figlia prediletta avrebbe un ruolo di primo piano, e in tutta sincerità lo meriterebbe, data l’intelligenza politica mostrata in questi mesi ed emersa nel suo intervento a Cleveland.
In quel caso, sulle ceneri del Grand Old Party, potrebbe nascere una nuova dinastia politica, quella dei Trump.