La città di New York non è rimasta indifferente ai tragici fatti che hanno portato alla morte di Alton Sterling e Philando Castile, entrambi afroamericani uccisi dalla polizia rispettivamente a Baton Rouge e St. Paul, né alle notizie del terrore di Dallas. Come vi avevamo anticipato infatti giovedì sera una (inizialmente) piccola folla si è riunita a Union Square per far sentire la propria indignazione e ricordare le due vite perdute. Anche io, incuriosita, sono andata sul luogo dove la gente aumentava di minuto in minuto e improvvisamente mi sono trovata circondata da centinaia di persone di tutte le età, origini e professioni. Vedevo ovunque cartelloni e striscioni che recitavano slogan come “We won’t be alright”; “This is what democracy looks like” o “Whose streets? Our streets!”.
Dopo un’ora circa 2.000 persone hanno cominciato a marciare e presto la Fifth Avenue è stata invasa dalla folla che ha immobilizzato il traffico. Ho iniziato anche io a farmi strada tra le macchine paralizzate, superando pullman per turisti e taxi ormai rassegnati a dover aspettare molto tempo prima di poter ripartire. Le stime sul numero dei partecipanti alla protesta non sono tutte concordanti: si va da 500 persone a più di 2.500, stando ai diversi siti di informazione. Avevo già partecipato a varie manifestazioni studentesche in Italia ma l’esperienza di marciare sulla Fifth Avenue con i turisti che guardavano meravigliati e le auto bloccate è unica. Anche l’atmosfera era diversa e ho capito subito, guardandomi intorno, che le persone lì presenti stavano realmente marciando per i propri ideali, per qualcosa in cui credono, e non soltanto per creare confusione o avere l’occasione di portare a termine qualche atto vandalico come troppo spesso succede nel nostro paese.
Greg, un ingegnere che ha sempre vissuto a New York, ha accettato di rispondere alle nostre domande riguardo alla sua visione della protesta che si stava svolgendo. “Queste ingiustizie continuano da troppo tempo, sono stanco – ha affermato – La polizia può sparare alle persone come se fossero cani sulla strada. Presto arriveremo al punto in cui non rispetteranno più il cittadino, prima spareranno e poi faranno le domande”.
Il flusso di persone ha proseguito toccando molti dei punti nevralgici della città come Herald Square, il Flatiron Building, il West side e dopo quasi due ore di marcai i manifestanti si sono fermati a Times Square. Camminando all’interno della marea umana che si era creata si potevano vedere le persone più diverse e disparate finalmente unite dal desiderio comune di far sentire la propria voce e manifestare la loro indignazione verso ciò che ormai troppo spesso si verifica in America: attacchi razzisti da parte della polizia verso persone di colore. Numerose sono state le organizzazioni di attivisti che hanno preso parte alla marcia, a partire dallo Stop Mass Incarceration Newtork (che ha organizzato l’evento), e moltissime le frasi che si potevano leggere sui cartelloni tenuti alti sopra le teste dei partecipanti: “Stop racist police killings”; “Only revolution can bring justice”; “Beware police brutality” sono solo alcuni tra i tanti. Tra gli slogan più utilizzati, ovviamente, c’era anche quello dell’associazione Black Lives Matter, nata nel 2013 a seguito della diffusione dell’omonimo hashtag e oggi attiva a livello mondiale.
Arrivati a Times Square i manifestanti si sono fermati creando un grande gruppo proprio nel centro della piazza. Le luci degli schermi, gli slogan urlati e l’usuale traffico rendevano ai miei occhi l’atmosfera estremamente emozionante.
Nel complesso durante la protesta di giovedì sera a Manhattan non sono stati registrati particolari atti di violenza anche se nella parte finale della manifestazione circa 40 persone si sono fermate a Times Square rifiutando di muoversi e sono quindi state arrestate.
Mentre camminavamo per le strade di New York, circondati da persone pacifiche (molte partecipanti avevano portato con loro anche i figli, alcuni di soli 2 o 3 anni di età) nessuno poteva immaginare che, proprio nello stesso momento, le strade di Dallas si stessero macchiando di sangue. Nella città texana infatti, durante una protesta tenutasi per lo stesso motivo, cinque poliziotti sono morti e altre 9 persone sono rimaste ferite durante una sparatoria. Nelle prime ricostruzioni sembrava che a sparare fossero stati quattro cecchini, situati in una posizione sopraelevata nei pressi della JFK Memorial Plaza, lungo il corso della manifestazione, colpendo alle spalle degli agenti. Tre dei presunti assassini erano stati fermati dalla polizia mentre un quarto uomo, identificato come Micah Xavier Johnson, venticinquenne di Mesquite, Texas è morto durante il tentativo di catturarlo. Poi col passare delle ore, si è capito che il cecchino era stato uno solo e che non avrebbe più potuto confessare nulla. Johnson non aveva precedenti penali e durante le trattative con la polizia ha dichiarato che gli avvenimenti di Baton Rouge e St. Paul avevano acceso in lui il desiderio di uccidere persone bianche, specialmente poliziotti, e che stava agendo senza alcun complice. Johnson è stato ucciso dalla detonazione di una bomba robot manovrata dalla polizia. Il capo della polizia di Dallas, Brown, successivamente si è giustificato dicendo: “Non avevamo scelta, ogni alternativa avrebbe messo in pericolo i nostri agenti”. Jeff Hood, uno degli organizzatori della marcia di Dallas, ha dichiarato di non avere nulla a che fare con i cecchini e che non appena ha sentito gli spari ha immediatamente chiesto a tutti coloro che si trovavano vicino a lui di scappare.
Janelle Clements, studentessa e attivista di New York City, è tra le organizzatrici della manifestazione di New York. Dopo le notizie da Dallas ha risposto così alle nostre domande: “La protesta è il modo in cui cerco di salvare me stessa, la mia famiglia e tutti coloro che sono nella mia situazione. Avevo 13 anni quando Trayvon Martin fu ucciso e, da allora, non è ancora passato un solo giorno senza qualche omicidio. La polizia è sempre più armata, le persone qui usano le pistole come in nessun altro paese. Stiamo diventando sempre più animaleschi, qualcuno può vedere questa trasformazione come necessaria e qualcun altro come allarmante. In ogni caso, sta nascendo qualcosa che farà aumentare ancora il tasso di violenza ”.
Al momento dei fatti, il presidente Barack Obama si trovava a Varsavia per un incontro tra la NATO e i leader europei e ha commentato gli avvenimenti ben due volte nel giro di poche ore. Inizialmente, Obama ha colto l’occasione per rivolgere le sue condoglianze ai familiari delle vittime St. Paul e Baton Rouge, affermando: “Abbiamo ormai visto tragedie come queste troppe volte. Tutti noi, in quanti americani, dovremmo essere turbati da ciò che è successo perché questo non è un incidente isolato, ma un segnale sintomatico di un più grande sistema di disparità raziale che esiste nel nostro sistema di giustizia criminale”.
Sempre da Varsavia, Obama ha poi dovuto commentare i fatti di Dallas, dichiarando: “Ancora non sappiamo esattamente cosa sia successo, ma sappiamo di per certo che è stato un violento e calcolato attacco contro la legge che non può avere alcuna giustificazione. Credo di parlare a nome di ogni americano quando dico che siamo inorriditi. […] L’FBI è già in contatto con la polizia di Dallas, sarà fatta giustizia”.
Le proteste in occasione della morte di Sterling e Castile hanno avuto di certo grande risonanza e non passeranno inosservate. L’America è stanca della violenza razzista, in entrambi i sensi essa venga portata avanti e le persone fanno sentire la propria voce. Le manifestazioni, infatti, nell’ultimo periodo si stanno rendendo sempre più pericolose e i giovani se ne stanno rendendo conto. Come è possibile che gli Stati Uniti siano potuti passare da manifestazioni che, specialmente negli ultimi anni, rappresentavano un’occasione pacifica di incontro a episodi come quelli di Dallas? Sembra quasi di essere tornati al passato, a quelle manifestazioni che erano vere e proprie rivolte e hanno infiammato gli anni ’60 e ’70. L’America sta riscoprendo il potere della violenza, quel potere che ha spento per sempre le voci di personaggi quali Martin Luther King o Malcom X. Da questo punto di vista i frequenti richiami di Trump ai cari “good old days” appaiono sempre più minacciosi.
Laura Loguercio è una studentessa dell’Università Statale di Milano che sta completando una internship con La Voce di New York.