Incontro Ilaria Cucchi nel suo ufficio, è tornata da pochi giorni da Bruxelles dove insieme all’associazione ACAD, l’Associazione Contro gli Abusi in Divisa con la quale collabora, è stata ascoltata al Parlamento europeo sul tema delle morti in carcere di cui non è mai stata accertata la causa.
Il volto di Ilaria è inesorabilmente legato a quello di suo fratello Stefano, lo ricorda anche nei lineamenti. Stefano Cucchi è il giovane geometra romano di 31 anni morto il 22 ottobre del 2009 durante la custodia cautelare decisa in seguito al suo arresto per spaccio di droga. Stefano muore mentre lo Stato lo tiene in custodia. Si ipotizza subito un malore o un suicidio ma la famiglia non cede alle pressioni e comincia la sua battaglia per conoscere la verità.
Stefano muore nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini dopo sei giorni di agonia tra carcere, visite mediche, trasferimenti e un processo di convalida dell’arresto, il giorno dopo il fermo, in cui già mostra evidenti segni di malessere. Le parole sofferenti di Cucchi durante il processo per direttissima sono ormai di dominio pubblico. Le foto del corpo martoriato di Stefano (morirà pesando 37 chili), con due vertebre rotte, disidratato, disteso con il volto livido e tumefatto sul letto dell’obitorio, che la famiglia Cucchi decide di mostrare pubblicamente per allontanare il rischio di una rapida chiusura del caso per suicidio, sconvolgono l’opinione pubblica e trasformano il fatto di cronaca nera in uno dei più noti casi di cronaca giudiziaria degli ultimi anni (una scheda sintetica del caso Cucchi si trova sul sito dell’ACAD).
Sette anni di udienze e di indagini non sono serviti però ad accertare le responsabilità; nel primo processo tutti gli imputati, accusati di lesioni e non di omicidio, sono stati assolti per insufficienza di prove.
Mercoledì 8 giugno, alla Corte d’assise di appello di Roma, durante il processo di appello-bis contro i cinque medici (Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo: assolti in secondo grado; sentenza poi annullata dalla Cassazione) che avrebbero dovuto prendersi cura di Stefano durante il periodo di detenzione, il procuratore generale Eugenio Rubolino ha iniziato la sua requisitoria sostenendo: “Una prima volta Stefano è stato ucciso da servitori dello Stato in divisa, si tratta solo di stabilire il colore delle divise. La seconda volta è stato ucciso dai servitori dello Stato in camice bianco”. Rubolino ha richiesto per i medici una condanna per omicidio colposo senza attenuante generica, ribaltando la sentenza assolutoria. “Vittima di tortura come Giulio Regeni — ha continuato il procuratore generale — Cucchi è stato pestato, ucciso quando era in mano dello Stato. Occorre restituire dignità a Stefano e all’intero Paese. Bisogna evitare che muoia una terza volta”.
Nel settembre 2015 la Procura di Roma ha inoltre riaperto un fascicolo d’indagine sul caso confermando la tesi sostenuta anche dalla famiglia di un “violentissimo pestaggio”. Il 13 ottobre 2015 la Procura ha iscritto nel registro degli indagati quattro carabinieri oltre a Roberto Mandolini, accusato per falsa testimonianza. Le nuove iscrizioni riguardano Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco e Vincenzo Nicolardi. Per la prima volta si ipotizza il reato di lesioni aggravate avanzato contro i primi tre militari, che parteciparono alla perquisizione in casa Cucchi e al trasferimento di questi nella caserma Appia. Nicolardi, come Mandolini, è accusato di falsa testimonianza. Al momento sono dunque cinque gli indagati nella nuova inchiesta, per la prima volta tutti appartenenti all’Arma dei carabinieri.
La famiglia di Stefano continua la sua lotta tra perizie contraddittorie, omissioni, attacchi feroci da parte delle istituzioni, depistaggi, minacce, rischio di prescrizione.
La tenacia di Ilaria e dei suoi genitori ha contribuito non solo a portare alla luce molti altri casi di presunte morti accidentali nelle carceri italiane ma anche ad incentivare il dibattito sull’introduzione del reato di tortura in Italia. La petizione lanciata da Ilaria Cucchi un paio di ore prima di questa intervista ha raggiunto in pochi giorni oltre 200.000 firme.
A volte parli di tuo fratello riferendoti a lui come “quello famoso”. Purtroppo è così. Dal punto di vista comunicativo però, ed evidentemente solo da quel punto di vista, questo deve essere considerato comunque un aspetto positivo. In Italia tutti, o quasi, sanno cosa è accaduto a Stefano. Se non fosse diventato tragicamente famoso il caso sarebbe stato già chiuso?
“Sicuramente sì, il fatto di dire che Stefano è famoso, considerando quello di cui stiamo parlando, fa rabbrividire. Io ho detto più volte che Stefano è fortunato perché è famoso, certo fa rabbrividire però purtroppo è la realtà. Ricordo sempre che di casi come quelli di mio fratello ce ne sono tanti, molti addirittura peggiori, eppure difficilmente famiglie come la mia riescono a portare alla luce queste storie. Io non so dirti esattamente cosa è scattato, cosa è stato a fare la differenza, probabilmente, anzi quasi sicuramente, la pubblicazione di quelle foto. Quella scelta sofferta a un certo punto, quando tutto si dirigeva nel dire “non è successo nulla”. Si parlava di caduta dalle scale, che Stefano si era lasciato andare, lo si faceva apparire come un suicidio ma io avevo ben fissa nella mente l’immagine del corpo di mio fratello che avevo visto all’obitorio. Allora ci fu la decisione sofferta di pubblicare le foto. In quel momento è scattato qualcosa nell’immaginario collettivo; io ricordo bene, mentre eravamo in Senato durante la conferenza stampa, le espressioni dei volti dei giornalisti seduti di fronte a me nel momento in cui hanno aperto quel dossier e hanno visto cosa conteneva”.
Quelle foto sono entrate nella storia del nostro Paese, recentemente hai dichiarato che speri che la famiglia Regeni non sia costretta a mostrare le foto del figlio.
“Sì, perché questa è una seconda violenza che ci fanno le nostre istituzioni. Ti faccio una premessa: tu mi stai conoscendo oggi, non sai che io sette anni fa ero una persona completamente diversa. Vengo da una famiglia piccolo-borghese, sono di estrazione cattolica praticante, la mia famiglia ha frequentato gli scout e io, non mi vergogno a dirlo, ero una di quelle persone che sentiva parlare di vicende come quella che ha poi riguardato la mia famiglia, ma che le ascoltava sempre con un certo distacco, un distacco non dato da egoismo ma dato dal pensiero che a me non sarebbe mai capitato. Sentivo parlare del tema delle carceri, mi preoccupava, mi dispiaceva ma comunque non avrebbe mai riguardato me o la mia famiglia. In un istante, nel momento in cui mi stava crollando il mondo addosso, mi sono resa conto di quanto mi sbagliavo. Credo sia una sorta di meccanismo di autodifesa, ossia le persone comuni hanno bisogno di trovare nei protagonisti di queste vicende qualcosa che li differenzi da loro, in modo da potersi convincere che a loro non capiterà mai e in modo da potersi tranquillizzare. E allora Stefano Cucchi era un tossicodipendente, per questo è morto, quante volte lo abbiamo sentito dire. Mio figlio non si droga e a lui non capiterà mai, io sono tranquillo”.
Potresti ripercorrere i momenti successivi all’arresto di Stefano quel 15 ottobre 2009?
“Sei giorni prima della sua morte (il 22 ottobre 2009 ndr), mio fratello era uscito di casa sulle proprie gambe, in normalissime condizioni di salute, tanto da aver fatto tapis roulant un’ora prima dell’arresto a dispetto di tutto ciò che si è cercato di dire nei primissimi istanti dopo la sua morte e durante il processo, dove lo si descriveva come un morto che camminava. Mio fratello stava bene l’ultima volta che l’abbiamo visto.
Sei giorni dopo non ci comunicano che Stefano è morto, ma vengono direttamente i carabinieri a casa di mia madre a notificarle un decreto di autopsia; in quel momento le comunicano che di lì a poche ore sarebbe stato sezionato il cadavere di suo figlio. Di conseguenza noi andiamo al Pertini e solo in quel momento, dopo sei giorni dall’arresto, qualcuno esce fuori a parlare con noi. Esce un agente, non potrò mai dimenticare questa figura davanti a me; mentre io da sorella chiedevo spiegazioni lui continuava a balbettare risposte che non c’entravano nulla del tipo ‘ma io non l’ho mai visto’, ‘suo fratello si è lasciato andare’, ‘io gli accendevo la televisione ma lui non la guardava mai perché era sempre coperto’, ‘io suo fratello non sono mai riuscito a vederlo’. Ero consapevole che mio fratello aveva un brutto carattere ma io gli stavo chiedendo di cosa fosse morto. Alla fine questa persona si deve essere innervosita per l’insistenza delle mie domande, ha alzato le braccia e ci ha detto: ‘comunque controllate, le carte sono in regola’. In quell’istante ho capito cosa mi avrebbe aspettato. Ho capito quanto ero stata cieca fino a un attimo prima.

Nel momento in cui Stefano è stato arrestato, a me come ai miei genitori è crollato il mondo addosso perché pensavamo che la droga fosse uscita per sempre dalle nostre vite, invece quel giorno, in piena notte, non solo scopriamo che la droga è tornata nelle nostre vite ma che ci è tornata nel modo peggiore perché Stefano si presenta a casa accompagnato da un bel numero di carabinieri che lo avevano arrestato per spaccio. Il mio mondo era crollato. Ero preoccupata, ero arrabbiata, ma soprattutto preoccupata non solo per la vicenda giudiziaria, anche se era la prima volta che la mia famiglia si trovava ad affrontare una cosa del genere, ma per il fatto che la droga era tornata nelle nostre vite. O almeno questo credevamo in quel momento. In quel momento io mi fidavo a tal punto di quelle istituzioni, che poi avrebbero inghiottito Stefano e quello che restava della sua vita, da pensare che ora mio fratello era in mani sicure. Io come sorella invece avevo fallito perché non ero stata capace nemmeno di capire che c’era un problema.
Mi ripetevo: adesso capirà quanto è pericoloso quello che ha fatto. E interpretavo la situazione come avrebbe fatto chiunque, seppure nella tragedia ero convinta che quello fosse il modo di risolvere il problema perché, io che non conoscevo il carcere, che non ne sapevo nulla, ero convinta che il carcere fosse quello che dovrebbe essere, cioè qualcosa che tenda alla rieducazione. Oggi, ma non allora, so che se mio fratello fosse rimasto vivo certamente non sarebbe uscito di lì una persona migliore. Perché di fatto in quei sei giorni in cui Stefano è stato inghiottito dal carcere di lui è stato calpestato ogni diritto, a partire dal più banale. Ad un certo punto lui non è stato nemmeno più visto come un essere umano, è questa la cosa drammatica; sarà forse per il fatto che c’è una certa assuefazione a vedere determinate situazioni. Durante l’udienza per direttissima il pubblico ministero, il giudice e l’avvocato d’ufficio dicono di non aver notato niente perché erano distratti, perché guardavano da un’altra parte e non hanno visto in che condizioni era mio fratello; lui stava già male in quel momento perché era stato picchiato la notte. Io ho ascoltato le registrazioni di quell’udienza, Stefano stava male, si lamenta più volte perché non riesce a parlare. Abbiamo la testimonianza dell’avvocatessa che si trova a passare lì per caso e lo descrive in condizioni terribili; però gli altri dicono di non aver visto. C’è poi la segretaria d’udienza che dice di aver notato le sue condizioni ma spiega anche di essere abituata a vedere presentarsi così gli arrestati della notte. Questa cosa fa rabbrividire. E così è potuto succedere che in quei sei giorni mio fratello sia stato posto di fatto in un vero e proprio stato di isolamento, perché volutamente è stato portato al Pertini affinché non fosse visto da nessuno e affinché nessuno ascoltasse le sue denunce. In realtà mio fratello non è stato solo in quei sei giorni, mio fratello ha incontrato tra le 140 e le 150 persone, le abbiamo contate, sono i testimoni del nostro processo. Questa cosa è terribile perché queste non erano persone comuni, questi erano tutti rappresentanti delle istituzioni e io moralmente ritengo responsabili della morte di mio fratello ciascuna di quelle 140 persone, a partire dal giudice e dal pubblico ministero che in quell’aula avrebbero potuto interrompere la catena di eventi che hanno portato mio fratello alla morte”.
Tutti hanno distolto lo sguardo con indifferenza…
“Sarebbe bastato che solo una di quelle persone avesse compiuto un gesto, non di umana pietà, ma avesse svolto il proprio dovere in quanto pubblico ufficiale per denunciare quello che aveva davanti agli occhi e Stefano Cucchi non sarebbe famoso, non lo conoscerebbe nessuno e nulla sarebbe mai successo. Stefano avrebbe portato avanti il suo percorso giudiziario e poi chissà cosa sarebbe accaduto ma sicuramente non sarebbe morto in quelle circostanze, e invece così non è stato. Tutti si sono voltati dall’altra parte perché effettivamente sono abituati. Io mi immagino la scena di Stefano che già stava male in quell’aula, dove le sue condizioni peggiorano di giorno in giorno, di ora in ora. Io ti ricordo che mio fratello è morto di dolore, letteralmente, e c’erano delle persone che vedevano degenerare le sue condizioni fino a portarlo a spegnersi nel sonno dopo sei giorni. E nessuno ha fatto assolutamente nulla, nessuno si è accorto di nulla, nessuno si è accorto che mio fratello aveva un globo vescicale di 1.400 cc di urina, vale a dire un pallone visibile anche ad occhio nudo. Lo si vede nelle foto, ed era talmente grande da lacerare tutta la muscolatura intorno. Lui stava malissimo, stava soffrendo come un cane.

Stefano Cucchi non era nessuno, come non sono nessuno io, Stefano Cucchi non era certamente un eroe nella sua vita però quello che mi sento di dire è che mio fratello è morto da eroe rivendicando i suoi diritti, il suo diritto di parlare con l’avvocato ad esempio. Si è parlato spesso di sciopero della fame e di Stefano che si era lasciato andare, non è così. A tratti, come spiraglio a cui aggrapparsi, rifiutava cibo e cure con una precisa domanda: io voglio incontrare l’avvocato, solo a lui dirò cosa mi è stato fatto. Queste cose vengono appuntate in cartella ma nessuno si preoccupa di metterlo in contatto con l’avvocato. E Stefano le prova tutte, a un certo punto prova a mettersi in contatto e parla con la volontaria alla quale dà il numero di casa mia. Quella sera la volontaria chiama a casa mia e dice che mio fratello vuole incontrare suo cognato, il mio ex marito, perché probabilmente di me e dei miei genitori poteva avere soggezione. Lui si sentiva probabilmente in colpa per averci traditi per l’ennesima volta, lui pensava che l’avessimo abbandonato, era plausibile, in realtà non era così perché i miei genitori erano tutti i giorni fuori da quella porta ma nessuno glielo avrà detto. Lui non voleva lasciarsi andare, lui voleva vivere e si è attaccato a quella flebile speranza finché c’è stata e la sera prima di morire, non ce lo dimentichiamo, ha scritto una lettera. Si fa portare carta e penna e scrive una lettera rivolgendosi agli operatori del CEIS, la comunità di Don Picchi dove lui aveva fatto il suo percorso. Quella lettera dice tutto. Devi sapere che uno dei miei vuoti è il fatto che ci sono dei momenti negli ultimi giorni di mio fratello che io non conoscerò mai. Siamo riusciti con il tempo a ricostruire quelle giornate però non avremo mai un quadro completo ma soprattutto io non saprò mai come Stefano ha vissuto quei momenti emotivamente, come si sentiva, cosa pensava, se ha pianto. Queste cose io non le saprò mai ma leggendo quella lettera io capisco qualcosa di mio fratello perché è una lettera dove c’è scritto e si legge il suo dolore, è una lettera scritta con una calligrafia storta nonostante lui fosse sempre preciso nello scrivere. Lui amava scrivere, scriveva poesie. Aveva una calligrafia sempre ordinata, lì si vede che sta male però non vuole impietosire, questa cosa mi fa rivedere mio fratello. A un certo punto scrive ‘scusa se sono di poche parole ma sono giù di morale e posso muovermi poco’. Mio fratello dopo tre ore è morto di dolore. La lettera finisce con un inquietante P.S.: ‘Per favore almeno rispondimi’. A lasciar intendere che chissà quante altre richieste di aiuto erano cadute nel vuoto.

Questo è stato mio fratello in quei giorni, ha lottato per vivere fino all’ultimo momento, poi il suo cuore non ce l’ha fatta più e nel sonno ha smesso di battere, così si è spento mio fratello. E nonostante il fatto che in quei giorni nessuno abbia avuto la capacità di vedere al di là di quel detenuto tossicodipendente pure rompiscatole un essere umano, questo atteggiamento non è cambiato nemmeno dopo la sua morte e non è cambiato nemmeno nei nostri confronti. Qual è la prima cosa che viene in mente ad un medico dopo che il suo paziente è morto? Avvisare i familiari. Nulla di tutto questo è stato fatto. Quella vita non contava nulla in vita, figuriamoci dopo la morte, era soltanto un problema burocratico da risolvere, “le carte erano a posto”. Se io non mi fossi rimboccata le maniche e se la mia famiglia non avesse messo in stand-by il dolore, congelato quel dolore, sarebbe finito tutto lì. Mi pare che Stefano fu il 148° morto in carcere quell’anno, dopo ce ne furono altri, perché mio fratello morì il 22 ottobre. Sarebbe stato l’ennesimo caso di suicidio in carcere e di lì a poco non si sarebbe saputo più nulla. Non c’era tempo di piangere. Devi sapere che in sei anni avrò pianto un paio di volte la morte di mio fratello; io quel lutto non l’ho mai completamente elaborato perché non ce n’era il tempo. Perché fermarsi voleva dire veder svanire la possibilità di avere delle risposte; ora non è che ottenere delle risposte ti riporta indietro il tuo morto ma ti aiuta ad elaborare il tuo dolore. Abbiamo bisogno di sapere per poter andare avanti, invece la nostra giustizia ce la nega questa possibilità. Si sta dicendo che quelle vite non contavano nulla, che noi non contiamo nulla, che i nostri sentimenti non contano. “Ma sì, fatevene una ragione”, “voltate pagina”, “andate avanti con la vostra vita”, questo ci stanno dicendo. Io capisco tutti quelli che decidono di finirla lì e di non intraprendere nessuna battaglia perché una famiglia ha il sacrosanto diritto di vivere il proprio dolore nel chiuso dei propri affetti. Non ti consentono di cercare giustizia”.
A fine 2015 ci sono state delle novità importanti. La Procura di Roma ha riaperto un fascicolo d’indagine sul caso e negli atti si parla di “violentissimo pestaggio”. Quali saranno gli sviluppi processuali nel 2016? Cosa ti preoccupa di più?
“Io ho affrontato tutto il primo processo consapevole che stavamo facendo un processo ipocrita, quella non era la verità, era chiaro. Si sosteneva che Stefano tutto sommato era morto di suo, senza responsabilità altrui, abbiamo affrontato un processo lunghissimo in cui si è fatto di tutto per sostenere questo, anche nelle maniere più bizzarre. Poi ci fu l’assoluzione di tutti nella sentenza di secondo grado. Io quel giorno dissi a Fabio Anselmo, il mio avvocato, “abbiamo vinto”; lui mi ha risposto come se fossi fuori di testa dicendomi che avevamo perso visto che avevano assolto tutti. Io gli ho ripetuto “abbiamo vinto” e alla fine lui ha capito, perché fuori da quell’aula tutti avevano capito, perché quel risultato, quell’assoluzione, quella sentenza rappresentava il fallimento della giustizia, che non era tale anche per mio fratello. Era un’assoluzione per insufficienza di prove dopo cinque anni di processo estenuante; gli agenti sono stati assolti per insufficienza di prove. Quelle persone rientrano nelle 140 persone che videro mio fratello dopo il pestaggio. Quella sentenza è stato il fallimento della giustizia, da quel momento in poi c’è stata la svolta. La Procura ha svolto delle indagini importantissime a 360 gradi ed ha individuato quelle che erano le vere responsabilità. Ha fatto un lavoro eccellente e questa è stata per me una sensazione nuova, sconosciuta, finalmente non ero da sola con il mio avvocato a cercare la verità ma avevamo la Procura di Roma al nostro fianco. Finalmente Stefano contava qualcosa, di fronte a quello che gli era capitato non c’era l’intenzione di far finta di niente.

Mi chiedi che cosa mi preoccupa? Mi preoccupa che di fronte ad un lavoro così prezioso mi trovo di nuovo a dover affrontare la parte delle perizie. Sette anni fa non lo sapevo, ora so che le perizie sono fondamentali in questi processi perché indicano in qualche modo la strada. In questi anni purtroppo ne ho viste tante, potremmo stare qui una giornata a raccontare cosa è stato detto in quell’aula. Veniva detta qualsiasi cosa pur di affermare che tutto sommato non era successo nulla, che Stefano non stava così male e che alla fine poteva stare anche a casa sua con il catetere. È stato detto che il catetere gli era stato messo per comodità. Se non fosse stato che si stava parlando della morte di mio fratello io avrei riso dall’inizio alla fine per quello che sentivo uscire dalla bocca di quei consulenti e di quei periti. Basti pensare al consulente della Procura, il professor Arbarello, che a incarico appena ricevuto parla alle telecamere del TG5 e dice che si tratta di un caso di colpa medica e che sarà sua cura dimostrarlo. Era stato appena nominato e non aveva nemmeno avuto modo di vedere le carte, però quello doveva essere un caso di mala sanità, le altre responsabilità non dovevano esistere o essere così rilevanti. E così è stato. Fortunatamente oggi siamo in un momento diverso ma di nuovo mi trovo a scontrarmi con periti che, spero tanto di sbagliarmi ma temo di no, faranno di tutto per difendere l’operato dei loro colleghi. E questo fa paura perché un cittadino comune come me, che strumenti ha di fronte a questo? In quelle aule di giustizia noi non siamo nessuno, in quelle aule si fanno processi ai morti e questo mi fa paura. So che non sono sola e che la Procura si batterà fino alla fine e che vuole arrivare alla verità”.
Pochi giorni fa tra l’altro è arrivata la sentenza sulla morte di Giuseppe Uva.
“Ecco, di che stiamo parlando? Il fatto non sussiste, una famiglia come si deve sentire di fronte ad una sentenza di questo tipo? Il fatto non sussiste, non è successo nulla. Io non ho paura di dirlo, Giuseppe Uva è stato torturato. Cos’è che non sussiste? Purtroppo abbiamo una giustizia che ha due pesi e due misure, perché se la giustizia fosse davvero uguale per tutti nessuna famiglia sarebbe messa nelle condizioni di prendere delle decisioni come quella, nel nostro caso, di dover pubblicare le fotografie. Perché seguirebbe il suo percorso giudiziario ma di fatto non è così.
Lottare per richiedere giustizia è qualcosa di massacrante sotto tutti i profili, sotto il profilo emotivo chiaramente, sotto il profilo economico. La giustizia è solo per chi se la può permettere, io e i miei genitori avevamo una casa da poter ipotecare, ma le famiglie che non ce l’hanno? Questi processi costano, hai idea di quanto costano gli avvocati, i consulenti, per non parlare della tua vita che lasci indietro. Mi sembra sempre di lasciare indietro qualcosa. Io ho due figli da crescere; quando mi fermo a riflettere penso che crescono meglio loro di altri i cui i genitori sono sempre lì, perché se non altro capiscono che quello che sto facendo lo sto facendo soprattutto per loro. Perché il futuro è loro e io non posso pensare che crescano in una società dove non esiste più il rispetto per i diritti fondamentali dell’essere umano. Per questo è morto mio fratello, perché non esiste questo rispetto. Io, come chiunque si trova ad affrontare una situazione del genere, ho lasciato indietro la mia vita, il mio lavoro, tutto.
E a chi dice che io vado contro le istituzioni, contro le forze dell’ordine vorrei dire solo una cosa. Ma secondo voi una persona che va contro le istituzioni, che non crede nelle istituzioni, massacra la propria vita per sette anni per chiedere a quelle istituzioni giustizia? No, io non chiedo giustizia a qualcuno a cui non credo, io credo in quelle istituzioni. Io rispetto la divisa delle forze dell’ordine; a non rispettarla è chi si macchia di quei reati. E non la rispetta nemmeno chi copre, chi protegge; questo è un meccanismo terribile che ti isola e che si mette in piedi un attimo dopo il verificarsi di queste vicende: è lo spirito di corpo, l’omertà. Io mi ricordo i primi momenti, mi avevano appena ammazzato mio fratello, l’avevo rivisto in quelle condizioni, era evidente che qualcosa era successo ma non era stato nessuno: i medici difendevano i medici, i poliziotti difendevano i poliziotti, i carabinieri non li potevi nemmeno nominare perché minacciavano querele. Ed io ero lì con le mie domande, con il volto di mio fratello stampato nella mente e con la consapevolezza che quelle domande sarebbero rimaste senza risposta”.
Mi hai anticipato perché volevo chiederti se credi ancora nello Stato. La vostra ricerca di giustizia lascia intendere che la risposta sia positiva.
“Io credo ancora nello Stato, io credo ancora nella giustizia. Mio fratello è morto di giustizia perché la fine della sua vita è iniziata in quell’aula di giustizia. La giustizia è fatta dalle persone e in questo momento sento di poterci credere, io ci voglio credere, ho il diritto di crederci per me e per i miei figli”.
Credi che lo Stato si possa auto-condannare?
“Ho capito che questa è una delle cose più difficili che si possa chiedere, cioè che lo Stato giudichi e condanni se stesso, perché significa mettere in discussione tante cose e iniziare a dare nomi e cognomi alle tante persone che a vario titolo hanno avuto un ruolo in queste vicende. Significa ammettere che qualcosa nelle proprie maglie non ha funzionato in quei sei giorni e che quel qualcosa è costato la vita di un essere umano. Significa assumersi delle responsabilità, significa prendere dei provvedimenti e questo è complicatissimo e per questo risulta molto più semplice chiedere a famiglie come la mia, che non sono nessuno e non contano nulla all’interno della nostra società, di voltare pagina, di farsene una ragione”.

Tra l’altro è molto facile mettere in discussione il singolo.
“Il singolo viene messo in discussione da subito, prima ti parlavo del ‘processo al morto’. Queste cose le ho capite sulla mia pelle ma avrei tanto voluto rimanere quella donna bigotta di cui ti raccontavo all’inizio dell’intervista perché avrebbe voluto dire che mio fratello sarebbe ancora qui. L’esperienza me la sono fatta iniziando a girare per i tribunali perché alla fine ho capito quanto era importante dare il mio sostegno a famiglie che come la mia si trovano in difficoltà, perché la sensazione che hai sin dal primo istante è quella di solitudine. Tu non sei nessuno, non conti nulla e sei solo contro qualcosa di enormemente più grande di te. Quindi quanto valore ha sapere che c’è qualcuno al tuo fianco, che magari ha vissuto quello che hai vissuto tu, e quanta forza ci dà essere uniti quando invece vorrebbero isolarci? E allora ho iniziato a girare i tribunali, a seguire le altre storie e una cosa l’ho capita: i meccanismi sono sempre gli stessi. Prima di tutto la criminalizzazione della vittima: trovare una giustificazione per dire ‘in fondo se l’è cercata’; questo è qualcosa che scatta da subito nell’immaginario collettivo.
Quello si drogava, quell’altro andava in giro di notte per le strade della sua città senza documenti… la gente ha bisogno di questo. Il problema è che poi questo meccanismo si ripercuote anche nelle aule di giustizia e quindi assistiamo a processi, come il mio, nei quali il 90 per cento del tempo è dedicato a fare domande su Stefano, sulla sua vita, sul suo carattere, sulla sua magrezza, sulla sua famiglia e addirittura sulla sua cagnetta. Cose che non c’entrano nulla. È stata fatta la domanda sulla cagnetta di Stefano ad insinuare che noi l’avessimo abbandonata e che quindi non eravamo una buona famiglia e di conseguenza con che diritto rompevamo le scatole? A parte il fatto che non è vero, la cagnetta di Stefano è ancora viva, sta benissimo e vive con noi; è il suo padrone che non c’è più. Ma al di là di questo, seppure noi fossimo stati una pessima famiglia, seppure Stefano fosse stato il peggior delinquente al mondo, noi eravamo lì per un altro motivo. Non è che Stefano lo avevamo ammazzato noi, non è che Stefano si era suicidato.
Eppure si parlava di cose che non c’entravano nulla e se il mio avvocato provava a fare domande a uno dei medici che lo aveva avuto in cura in quei giorni, ad esempio al medico del Fatebenefratelli, per capire da una persona che aveva avuto il polso della situazione, che aveva visto mio fratello da vivo e si era preoccupato al punto da predisporne il ricovero, e quindi non ai periti e ai consulenti che avevano esaminato solo il cadavere di Stefano, veniva puntualmente fatta opposizione. Questi erano i nostri processi. Io mi alzavo la mattina, e parliamo di udienze fitte, un’udienza a settimana per tanto tempo, e dicevo ma Stefano avrebbe voluto questo per noi? Stefano avrebbe voluto questo per noi, ma anche per se stesso? Ma cosa gli sto facendo?
Tanto sto portando avanti un processo suicida nel quale si dice tutto l’opposto della verità. Io vedevo i periti simulare le cadute; la caduta dalle scale con la quale mio fratello si sarebbe procurato le lesioni in tutte quelle parti del corpo”.
Se un poliziotto o un carabiniere commette un reato viene considerato una mela marcia, ma se i suoi colleghi lo coprono, e questo avviene molto spesso per non dire sistematicamente, non dovrebbero essere considerati dei complici? Anche in questo caso si mette sotto accusa il singolo per mantenere salva l’istituzione?

“Quello che pensavo in modo anche ingenuo quando mi trovavo di fronte a queste situazioni di omertà, in cui nessuno sapeva, in cui non era stato nessuno, continuavo a ripetermi: se io fossi un poliziotto o un carabiniere non mi darebbe fastidio? Non vorrei mettere nell’angolo e puntare il dito contro il collega che con il suo comportamento ha infangato la divisa che io invece onoro anche con il mio personale sacrificio? Non dimentichiamoci che nonostante il fatto che io stia collezionando querele e che sia accusata di istigare all’odio nei confronti delle forze dell’ordine, non ho mai detto e mai mi sentirete dire che tutti i carabinieri sono dei picchiatori. Quello che mi lascia perplessa è il fatto che i colleghi onesti non mettono nell’angolo queste persone. Questo è un problema enorme perché finché ci sarà questa copertura, in qualche modo i colpevoli si sentiranno sicuramente tutelati ma anche chi in futuro si potrebbe comportare nella stessa maniera si sentirà legittimato a farlo. So che la stragrande maggioranza delle forze dell’ordine è gente onesta che fa il proprio lavoro anche in condizioni difficili, però con questi comportamenti ci rendono davvero difficile credere al principio delle mele marce; basti pensare agli interventi puntuali e sistematici dei sindacati in queste vicende. Cosa c’entra un sindacato di polizia con dei poliziotti passati in giudicato dopo tre gradi di giudizio e condannati per la morte di un ragazzo di 18 anni (caso Federico Aldrovandi nda)? Cosa c’entrano i sindacati? Non si dovrebbero occupare di altro? Perché difendono i colleghi condannati e dall’altra parte coprono di insulti la famiglia, la mamma, il morto stesso. Che senso ha? Cosa vogliono dimostrare?”
Le dichiarazioni dell’ex moglie di Raffaele D’Alessandro sembrano confermare la vostra tesi. Credi che la sua testimonianza sarà determinante nel processo?
“Sì, io credo che ogni singolo passaggio di questa indagine sia determinante. Un’indagine che ha trovato delle prove talmente schiaccianti che queste persone non hanno altri strumenti che infangare di nuovo la memoria di mio fratello, insultare di nuovo mio fratello, insultare di nuovo me. Ogni elemento che è stato trovato li inchioda alle loro responsabilità, tra l’altro fa rabbrividire la maniera con cui si esprimono queste persone e con cui parlano di mio fratello. Ci siamo divertiti a picchiare quel tossico di merda. Nonostante siano passati sette anni e nonostante tutti sappiano che è morto e come è morto mio fratello, Stefano Cucchi continua ad essere un tossicodipendente, detenuto e rompiscatole. Siamo di fronte ad un enorme problema culturale, se coloro che devono difenderci non riescono a vedere in quella persona un essere umano, non riescono a vedere oltre il pregiudizio, io mi chiedo per i miei figli dove stiamo andando…e ne abbiamo tanti di esempi sotto gli occhi. Mio fratello è diventato famoso anche perché rappresenta in qualche modo una parte della società che sta diventando sempre più numerosa, quella dei cosiddetti ultimi, sotto vari aspetti. Di gente che quotidianamente si scontra contro un sistema, contro uno Stato che improvvisamente diventa nemico”.

Da quando è iniziato questo percorso drammatico, oltre alla battaglia giudiziaria, avete dovuto affrontare tutta una serie di attacchi anche personali. Sin da subito la tua famiglia è stata accusata duramente da alcuni rappresentanti dello Stato. Cos’è che ti fa più rabbia? Ti hanno addirittura accusato di aver lucrato sulla morte di Stefano.
“Ormai ci sono abituata, ho le spalle larghe. Mi hanno accusato di aver lucrato sulla morte di Stefano, di aver strumentalizzato la morte di mio fratello. Io a queste persone, come ad esempio a Giovanardi, rispondo che è vero che ho strumentalizzato la morte di mio fratello. Ho reso pubblico il dramma della nostra famiglia; dovresti parlare con mia madre che lo avrebbe voluto tenere chiuso nel nostro privato, e invece l’ho reso pubblico rivivendo sistematicamente ogni volta quello stesso identico dolore arrivando, come ti dicevo prima, dopo sette anni, a non aver ancora completamente elaborato quel lutto. Ho strumentalizzato mio fratello, ho reso la sua vicenda pubblica, ho mostrato le foto del suo corpo martoriato ma l’ho fatto perché sono convinta che tutto quello che ci accade ha un senso e che a volte fai fatica a comprenderlo ma c’è. Se devo dare un senso a quello che è accaduto a mio fratello, al suo sacrificio e al nostro successivo sacrificio, può essere solo questo: battersi per fare in modo che queste cose accadano sempre meno ma soprattutto per fare in modo che le persone perbene, le persone normali che si ritengono sempre estranee a queste realtà, aprano gli occhi. Anche io fino a sette anni fa pensavo che non mi sarebbe mai capitato, non l’avrei immaginato nemmeno nel peggiore degli incubi. Ma aldilà di questo, queste sono vicende che riguardano il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e della donna e che quindi necessariamente devono riguardare ciascuno di noi. E ciascuno di noi, nel suo piccolo, è tenuto a farsene carico. Ecco questa è stata la mia battaglia ed è vero che ho strumentalizzato Stefano. Qual è la cosa che mi fa più male? È che nonostante tutto sento ancora rivolgere le stesse accuse anche ad altre persone e ad altre famiglie, come è capitato recentemente alla mamma del povero Regeni; mi verrebbe da dire: attaccate me ma lei lasciatela in pace”.
In questi giorni purtroppo si parla molto della morte brutale di Giulio Regeni. I familiari e gli amici, ma anche i massimi rappresentanti dello stato italiano, chiedono giustamente di conoscere la verità. Non trovi però che ci sia dell’ipocrisia nelle parole di questi politici considerando il fatto che molti di loro non hanno mai voluto fare chiarezza sulla morte di molti italiani vittime di abusi da parte delle forze dell’ordine italiane?
“Mi viene da chiedere ma con quale autorità noi possiamo chiedere verità e giustizia a qualcun altro. Nel nostro Paese non abbiamo avuto ancora il coraggio, perché a questo punto credo si debba parlare di coraggio, di introdurre una legge sul reato di tortura. Che peso hanno le nostre domande, che peso abbiamo noi? Noi dovremmo iniziare a guardare dentro noi stessi, ai tantissimi casi di tortura che rimarranno impuniti perché in Italia non si è avuto il coraggio di fare questa scelta. Perché in Italia c’è ancora qualcuno che pensa che nel nostro Paese non ci sia bisogno di questa legge. C’è stato un momento in cui finalmente, dopo diversi richiami anche internazionali, sembrava ci stessimo arrivando, seppur con una legge non perfetta. L’impressione però è che tutto sia finito lì, non se ne sta nemmeno più parlando ma questo non vuol dire che il problema non ci sia. Cosa devo pensare se i sindacati intervengono nel dibattito sulla legge dicendo che se introducono il reato di tortura la polizia farà più fatica a lavorare. Cosa si vuol dire con una cosa del genere?”
In questi anni molti vi hanno espresso solidarietà, tra i primi a sostenere la vostra lotta ci sono gli stati gli ultrà, come era accaduto per Federico Aldrovandi. Per quale motivo secondo te?
“Puntualmente c’è sensibilità per ciascuna di queste vicende, perché probabilmente sono persone che in qualche maniera vivono il distacco e la contrapposizione con le istituzioni, vivono i piccoli soprusi quotidiani che un cittadino normale non subisce e quindi sono particolarmente sensibili a questi temi. Attestazioni di solidarietà, almeno nel mio caso, sono arrivate anche da parte di istituzioni, anche da uomini in divisa. Io ricordo ad esempio una lettera che mi pare fu pubblicata da L’Espresso, dopo la sentenza di secondo grado, scritta dal poliziotto Francesco Nicito. Quella è la polizia in cui voglio credere, arrivano delle dimostrazioni di vicinanza anche da lì; secondo me tutti dovrebbero prendere coraggio e difendere la loro categoria e prendere una posizione seria e netta su queste questioni, sull’introduzione del reato di tortura e su cose che credo possano salvaguardare anche loro e il loro operato”.
Sai chi ha ucciso tuo fratello?

“Non so se con questa ultima dichiarazione mi guadagnerò un’altra querela, ma oggi con questa nuova indagine sicuramente direi che sono gli autori stessi a dircelo nelle intercettazioni. Direi di avere un quadro abbastanza completo su quello che ha dovuto subire mio fratello e ad opera di chi. Mio fratello fu pestato quella notte nella caserma dei carabinieri e poi fu portato in quelle condizioni nei sotterranei di Piazzale Clodio e da quel momento fu inghiottito dal carcere. Tutto è nato quella notte, tutto è iniziato lì e mio fratello in aula la mattina già stava male. Umanamente io non riesco a comprendere come delle persone sapendo quello che avevano fatto hanno taciuto e hanno consentito che addirittura qualcun altro fosse processato al posto loro, quello che mi fa paura è che c’erano altre persone, oltre agli autori del pestaggio, a sapere. E tutti hanno taciuto. Lì si capisce il problema culturale al quale siamo di fronte, perché chi c’era dall’altra parte? C’era uno che non contava nulla, probabilmente in quei primi momenti e subito dopo la morte di Stefano si aveva la sensazione di essere di fronte a una delle tante morti in carcere per la quale nessuno avrebbe mai rivendicato nulla. Così non è stato però poteva esserlo se in quel momento non fosse scattato qualcosa in noi, se in quel momento fossimo stati sopraffatti giustamente e umanamente dal dolore. E quante volte si fanno queste cose, con quello spirito, tanto nessuno saprà mai niente? Io che prima ignoravo quasi totalmente la realtà delle carceri oggi mi rendo conto di quanti soprusi più o meno gravi vengono commessi quotidianamente in quelle realtà. Basti pensare alla vicenda di Rachid Assarag, il detenuto marocchino. Basta ascoltare quelle registrazioni per farsi un’idea di qual è la situazione, la consuetudine, la tolleranza. Tutti sanno tutto, tutti sanno quello che succede ma fanno finta di niente, anche i colleghi perbene, che a casa hanno una famiglia, dei figli da crescere, che sono onesti, anche loro fanno finta di niente e nel frattempo ci sono i detenuti, persone che non hanno strumenti per difendersi che ne pagano e ne subiscono le conseguenze. Di chi sono stracolme le nostre carceri? Degli ultimi, di certo non di quelli che hanno gli strumenti, i mezzi, i soldi”.