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Caso Stefano Cucchi: perchè, in ogni caso, lo Stato è colpevole

Valter VecelliobyValter Vecellio
Time: 3 mins read

Stefano Cucchi era un uomo di 36 anni, che il  15 ottobre 2009, a Roma,  viene fermato dalla polizia, dopo essere stato visto cedere a un uomo delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota. Portato in caserma, viene trovato in possesso di 12 confezioni di varia grandezza di hashish (per un totale di 21 grammi), tre confezioni impacchettate di cocaina (ognuna di una dose ciascuna). Scatta così la custodia cautelare. Il giorno dopo viene processato per direttissima. Già durante il processo ha difficoltà a camminare e a parlare, e mostra evidenti ematomi agli occhi. Nonostante le precarie condizioni, il giudice stabilisce per lui una nuova udienza da celebrare qualche settimana dopo e dispone che debba rimanere in custodia cautelare, nel carcere Regina Coeli. Dopo l'udienza le condizioni di Cucchi peggiorarono. Viene visitato all'ospedale Fatebenefratelli, presso il quale vengono messe a referto lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso (inclusa una frattura della mascella), all'addome (inclusa un'emorragia alla vescica) e al torace (incluse due fratture alla colonna vertebrale). Viene quindi richiesto il suo ricovero che però non avviene.

In carcere le condizioni di Cucchi peggiorano ulteriormente;  frettolosamente ricoverato, sempre in stato di detenzione, all’ospedale Sandro Pertini, ormai è troppo tardi, il 22 ottobre Cucchi muore. Questi sommariamente i fatti. Seguono due processi, nei confronti dei medici dell’ospedale, di agenti di custodia, di altro personale. Uno a uno tutti gli imputati vengono assolti. Cucchi è morto, non si è suicidato, le fotografie esibite dalla famiglia mostrano un corpo spaventosamente martoriato, con ferrite che possono essere solo il segno di un brutale pestaggio; ma chi è responsabile di quella morte, perché Cucchi sia stato ucciso, “in nome del popolo italiano” (frase di rito delle sentenze), non si sa, non si è accertato. Non si riesce ad accertare di chi sia la colpa e a chi debba essere imputata la responsabilità della morte di Cucchi. Naturalmente le polemiche divampano, intervengono il presidente del Consiglio, il president del Senato, il procuratore della Repubblica di Roma apre un’ulteriore inchiesta per capire come si sia giunti a un verdetto che lascia l’amaro in bocca un po’ a tutti.     

Le chiacchiere comunque stanno a zero, e non c’è alcuna necessità di attendere le motivazioni della sentenza assolutoria come pure qualcuno invita a fare. La questione, al di là dei funambolismi giuridici, ridotta all’osso, è molto semplice: un cittadino entra vivo in una istituzione dello Stato; ne esce morto. Il resto è il “di più” diabolico che non interessa sapere, che non si vuole sapere, che non importa sapere. Non si può transigere su una questione “elementare”: se lo Stato, attraverso una sua articolazione, priva un cittadino della sua libertà, automaticamente diventa garante e responsabile della sua incolumità, della sua integrità fisica e psichica. Senza se e senza ma.

Cucchi, privato della sua libertà – si ripete: non importa il motivo per cui lo si è fatto – è entrato vivo; è uscito morto. E’ da qui che occorre partire, questi sono i termini della questione, questo è lo scandalo. Lo scandalo di un uomo morto mentre si trova nelle mani dello Stato. Un uomo con il volto tumefatto, l’occhio destro rientrato nell’orbita, gonfio, con i segni evidenti del pestaggio patito. Più d’uno, certamente, i responsabili di questa morte: gli autori materiali del pestaggio; chi l’ha coperto; chi ha visto e girato lo sguardo altrove; chi ha sentito e non ascoltato; chi ha taciuto; chi non ha fatto, potendo e anzi, dovendo, fare.

In questo caso, però è tutto chiaro e “semplice”: Cucchi entra vivo, esce morto. Si può discutere, dibattere, chiarire, smentire, l’accaduto lo si può declinare in tanti modi. Ma il punto di partenza, incontrovertibile, indiscutibile, è sempre lo stesso: Cucchi entra vivo in una istituzione dello Stato, ne esce morto. Non è accettabile, non è giustificabile; non va accettato, non lo si può giustificare.

 

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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