Il 25 aprile 1945 l’Italia che stava dalla parte giusta si sollevò per l’ultima volta, e in maniera definitiva, contro chi stava dalla parte sbagliata. Non lo si dice per dividere, ancora, e dopo tanti anni, ma perché è giusto ricordare quello che un ambiguo venticello revisionista (alimentato da tanta, tanta ignoranza) cerca periodicamente di occultare, sminuire, relativizzare, far dimenticare. L’umana pietà per le vittime non c’entra nulla. Il punto è che chi rispose all’appello del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, i partigiani, e con loro tanti cittadini, tanti lavoratori e lavoratrici, insomma, tanti italiani, stava dalla parte giusta, dalla parte dell’Italia che voleva libertà e democrazia; fascisti e nazisti stavano dall’altra parte, dalla parte della dittatura, dalla parte delle leggi razziali, dalla parte di Hitler, dalla parte di Auschwitz. Dalla parte della guerra.
“Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”.
Questo l’appello che quel giorno il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, uno dei leader del Comitato di Liberazione Nazionale, lanciò al Paese. In pochi giorni i partigiani entrarono in tutte le città italiane non ancora libere. Il fascismo venne spazzato via, Mussolini fu giustiziato, i tedeschi si arresero definitivamente (il 29 aprile). Si aprì, insomma, una nuova pagina nella storia d’Italia.
Tutto il resto – compreso Porzus, compresi i regolamenti di conti, a volte sanguinosi, che si susseguirono nella fase finale della lotta partigiana e anche nel periodo successivo alla fine della guerra (fino al ’49), soprattutto nel cosiddetto Triangolo Rosso (in Emilia) – non inficiano per nulla il significato del 25 aprile, ovvero della duplice Liberazione dal fascismo e dall’occupazione tedesca.
La festa della Liberazione, in Italia, è dunque anche una festa della democrazia. Mai l’Italia l’aveva conosciuta pienamente, prima: il suffragio universale maschile era entrato in vigore, con forti limitazioni, nel 1912, e poi in maniera più ampia nel 1918, quello femminile dovrà attendere appunto il 1945-46. Certo, la democrazia non si esaurisce nell’esercizio del diritto di voto, né è cosa che si ottiene una volta per tutte. La democrazia è un processo continuo, che si evolve anche oggi, fra alti e bassi, che può conoscere blocchi e cadute. Tuttavia la democrazia italiana si fonda un basamento stabile, (stabile perché riconosciuto e accettato da tutte le forze politiche, non perché immutabile), la Costituzione approvata il 22 dicembre del 1947; e il presupposto fondamentale per la Costituzione italiana è stata senza ombra di dubbio la Liberazione.
C’è un ulteriore elemento, che forse non stona richiamare in una testata che fa un po’ da ponte fra Italia e America: la festa della Liberazione dovrebbe essere vista, per certi versi, anche come una festa dell’amicizia fra Italia e Stati Uniti d’America. Il perché è evidente. L’Italia non si liberò solo grazie alla lotta partigiana, che fu comunque imponente, coinvolgendo oltre 300.000 uomini e donne, fra combattenti e fiancheggiatori, e che costò la vita – secondo le stime dell’Anpi – ad oltre 44.000 persone (le statistiche dell’Esercito italiano, che distinguono fra militari poi passati alla Resistenza e civili, parlano invece di 17.400 militari e 37.200 civili). Si liberò anche grazie alle forze Alleate, nonché ai militari italiani che dopo l’8 settembre a loro volta “resistettero” ai tedeschi (anche unendosi a formazioni partigiane all’estero), venendo in gran numero uccisi o deportati in Germania.
Le forze Alleate che combatterono in Italia, come sappiamo, comprendevano eserciti provenienti da diverse parti del mondo: Inghilterra e paesi del suo Impero, dall’India alla Nuova Zelanda, ma anche Canada, Polonia, persino Brasile; tuttavia, è indubbio che un peso preponderante l’ebbero gli Stati Uniti, e che nell’immaginario collettivo dell’Italia la Liberazione è associata all’arrivo dei soldati americani nelle nostre città.
Gli americani portarono libertà, calze di nylon, chewing gum e jazz. Una nuova cultura politica, nuove espressioni culturali, e merci mai viste prima. Dopo i grigiori dell’autarchia, dopo le sofferenze e le privazioni della guerra, tutto questo rappresentò a tutti gli effetti un “nuovo inizio”.
Sul perché tutto questo non lo si avverta, di solito, nei festeggiamenti del 25 aprile, le spiegazioni sono diverse. Ideologiche, innanzitutto: La Resistenza venne combattuta da persone di diverso orientamento politico-ideologico, ma certo, un peso fondamentale lo ebbero i partigiani socialisti e comunisti, una parte dei quali ritenne, a cose fatte, che il “lavoro” non fosse stato concluso, che si dovesse andare ancora avanti. Ciò era comprensibile, all’epoca, ma, onestamente, lo è un po’ meno oggi. Ci sono poi più solide ragioni storiche: la Liberazione comportò anche gravi perdite di vite umane causate dal “fuoco amico”, ovvero dai bombardamenti alleati (circa 38.000 civili, si stima); nel Dopoguerra, anche a non essere complottisti, l’America influenzò pesantemente l’evoluzione politica del Paese, ostacolando in molti modi la crescita della Sinistra; e a tutt’oggi la NATO, uno dei frutti di quella stagione, conduce in Europa (anche dalle sue basi italiane) una politica inutilmente avventurista, in particolare con il suo provocatorio allargamento ad Est (va detto peraltro che senza l’intervento degli USA le Guerre balcaniche si sarebbero trascinate ancora per chissà quanto).
Non è questa la sede per esaminare nel dettaglio tutte queste questioni, che rientrano nella categoria del cosiddetto “antiamericanismo”. Una cosa però è fuor di dubbio: dal 25 aprile uscì un’Italia infinitamente migliore da quella che l’aveva preceduta. Non il “migliore dei mondi possibili”, per dirla con Voltaire, ma certamente un paese più democratico, più moderno, e più aperto. Un Paese che seppe accogliere e assimilare molto di ciò che arrivava dagli USA, in maniera a volte un po’ comica (quella su cui ironizzava Alberto Sordi nel celebre Un americano a Roma, del 1954), ma altre no.
Festeggiare il 25 aprile significa festeggiare i partigiani, e con loro gli altri italiani che risposero all’appello di Pertini, significa festeggiare gli Alleati, e significa festeggiare anche l’America, l’America migliore. Le cose non sono in contraddizione. Uniti dalla comune causa della lotta al fascismo e al nazismo, giovani partigiani che spesso guardavano alla Russia di Stalin come a un modello e giovani americani con un retroterra politico, sociale e culturale completamente diverso portarono a casa un risultato determinante per il futuro dell’Europa e del mondo. Il prezzo, in termini di vite umane, fu altissimo. E ciò che venne poi – la Guerra fredda, l’equilibrio del terrore, fondato sugli armamenti atomici, i tanti conflitti a bassa intensità scoppiati un po’ ovunque nel mondo (dalla Corea al Vietnam, dall’Angola all’Afghanistan) – non corrispose ai sogni, alle tante aspettative, coltivate allora. Ma va riconosciuto anche – vale la pena dirlo di nuovo – che l’Europa di oggi, e l’Italia di oggi, non è quella di prima del 25 aprile.