Romanzo di una strage del regista Marco Tullio Giordana, in visione anche oggi al Lincoln Center di New York per la rassegna Open Roads, è un gran bel film, ma non è la storia. E', come recita con onestà il titolo, un romanzo. Certamente anche un romanzo storico, ispirato da fatti realmente accaduti, ma l’ottimo film di Tullio Giordana non può risolvere il mistero della strage di Piazza Fontana, avvenuta a Milano il 12 dicembre del 1969. Non riesce a farlo perché ancora restano troppi i misteri tenuti nascosti da chi volle coprire i colpevoli di quella strage. Eppure usando al meglio la tecnica visiva della narrazione cinematografica, Giordana riesce a trasmettere efficacemente allo spettatore l'atmosfera cupa, da guerra gelida, che occupa quegli anni carichi di tensione in un’Italia al crocevia dello scontro tra grandi potenze.
Quando dentro la filiale della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano scoppia la bomba (o le bombe) che si portarono via la vita di 17 cittadini, colpevoli solo di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato – Giordana dedica il film a quelle vittime – , l'Italia era un paese nel mezzo di una grave crisi sociale. Scioperi, manifestazioni e piccoli attentati erano all’ordine del giorno. E mentre gli operai sfilavano e prendevano randellate dalla polizia, Valerio Borghese, il Principe nero, scorazzava indisturbato per l'Italia per presenziare adunate di fascisti in attesa del momento giusto per rimettere “ordine”.
Nel film scorre il tema fisso della cosidetta “strategia della tensione”. Ma non si pensi che la strage di Piazza Fontana rappresenti l’inizio di tutto: è in Sicilia, a Portella della Ginestra, il primo maggio del 1947, che quei misteri della Repubblica iniziano. Nel 1969, quindi, se si deve accettare l’idea di una "strategia della tensione", bisogna immaginarla come la continuazione di quella messa in atto nell’immediato dopoguerra, e non certo un esordio.
Il film di Giordana è liberamente tratto dal libro Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli (Edizioni Ponte alle Grazie). E di segreti, nel film, alla fine si muore.
A presentare la pellicola, venerdì scorso al Lincoln Center non c’era il regista, ma la responsabile del montaggio, Francesca Calvelli che nell’introdurlo ha detto ad una sala gremita che stava per essere proiettato un film molto importante per la storia, e non solo italiana. La Calvelli ci è apparsa convinta che anche il pubblico Americano sarebbe stato in grado di seguire certi eventi della storia italiana. Ma la trama può apparire complicata persino ad un pubblico italiano per cui, per uno spettatore americano, può diventare a tratti impossibile da seguire. Troppi i protagonisti, tra politici e potenziali terroristi, estremisti di destra e di sinistra che si intrecciano con le loro trame nere e rosse.
Il ministro degli Esteri Aldo Moro, appare come lo statista più lungimirante, che capisce che quel rovente scontro sociale può essere fermato solo da un compromesso ideologico, da quello che poi sarà chiamato “il compromesso storico”. Al Presidente Saragat invece nel film tocca la parte del “reazionario,” del “filo americano” obbligato in tutti i modi a sbarrare la strada al “pericolo rosso”.
Il film si sofferma soprattutto sulle indagini intraprese dal commissario Luigi Calabresi, che poi verrà ucciso e con la sua morte, l’ennesimo “mistero” della Repubblica, si chiude l’ultima scena del film. In mezzo c’è la scomparsa dell’anarchico Giuseppe Pinelli, che precipita da una finestra della Questura durante un interogatorio, “suicidio” subito smascherato. Il commissario verrà però accusato ingiustamente della morte di Pinelli da una campagna di stampa tremenda (che nel film non si vede). Nel film però Giordana fa vedere che Calabresi era fuori dalla stanza, che i colpevoli della morte del povero Pinelli erano altri poliziotti. E Giordana nel film restituisce tanta umanità sia a Calabresi che a Pinelli, due “avversari” che si stimano a vicenda e che cadono entrambi vittime di una guerra che nessuno sembra in grado di controllare.
Tutte le interpretazioni degli attori sono all’altezza, ma a noi é piaciuto particolarmente Pierfrancesco Favino nella parte di Pinelli, una superba intepretazione. Valerio Mastrandea è il commissario Calabresi, Laura Chiatti la moglie Gemma. E anche la moglie dell’anarchico, Licia Pinelli, è interpretata magnificamente da Michela Cescon: l’attrice riesce a far trasparire dallo schermo l’immenso dolore sempre vissuto con estrema dignità, anche quando sale la rabbia per una domanda di giustizia che non sarà mai esaudita.
Nel film appare Moro, interpetato da Fabrizio Gifuni, un po’ meno convincente degli altri, che cercare di diffondere prudenza contro le tendenze reazionarie di altri esponenti del governo. Ma il gioco sembra condotto sempre dal Presidente Saragat, intepretato da Omero Antonutti, con l'avallo degli Stati Uniti.
Nel film ecco avere ampio spazio, con il loro quasi incomprensibile dialetto, il giro di fascisti veneti di Avanguardia Nazionale collegati a Junio Valerio Borghese. Mentre l’anarchico Pietro Valpreda, che aveva avuto contrasti con il “non violento” Pinelli, viene riconosciuto da un tassista, che lo indica come l'uomo che il 12 dicembre era sceso dal suo taxi in piazza Fontana pochi minuti prima l’esplosione, recando con sé una grossa valigia, e viene arrestato dalla polizia.
Iniziano ad emergere connivenze tra i servizi segreti e gli ambienti dell'estrema destra, dove operano Giovanni Ventura e Franco Freda, in collegamento con l'agente del SID, il giornalista Guido Giannettini. L'inchiesta, condotta dal sostituto procuratore Pietro Calogero, interpretato da Luigi Lo Cascio, viene però trasferita a Roma.
Moro intanto sempre più preoccupato parla con il Presidente del Consiglio Mariano Rumor di “strategia della tensione”, mentre la moglie di Pinelli, Licia, sporge denuncia contro la questura di Milano, costituendosi parte civile nel processo a carico del commissario Calabresi e dei funzionari presenti la sera della morte. Alla fine è proprio il commissario Calabresi che viene a conoscenza dell'esistenza di un deposito di armi e di esplosivi, sito in una galleria nei pressi del confine con la Jugoslavia, dove gli estremisti di destra potrebbero avere prelevato l'esplosivo utilizzato per la strage alla Banca dell'Agricoltura. Si vede Calabresi che riferisce al suo ex questore, ora diventato prefetto a Roma, della possibilità della presenza di due bombe, collocate tuttavia non da Valpreda ma da uno tra tre neofascisti che gli assomigliano. Proprio quando lo spettatore viene indirizzato verso la pista che gli organizzatori fascisti della strage siano stati coperti dallo Stato e della NATO, ecco l’ultima scena del film, con il commissario Calabresi che verrà ucciso sotto casa, mentre si vede la moglie Gemma che ha come un presentimento nel vederlo uscire.
Tanta storia per un solo film che, ripetiamo, non può essere la storia definitiva della strage di Piazza Fontana e delle sue conseguenze.
Mario Calabresi, figlio maggiore del commissario, oggi direttore de La Stampa e che nel film vediamo bambino, ha cosí commentato il film a Il Corriere della Sera: «I due anni terribili della campagna di Lotta continua contro mio padre non ci sono, se non per qualche vago accenno: una scritta sul muro, i fischi al processo. Ma se nascondi quella campagna, se non metti in scena il clima del tempo, il linciaggio, la disperazione, si fatica a capire perché sia stata condannata Lotta continua. La morte di mio padre sembra legata solo ai suoi sospetti sulla destra, al "sogno" finale, al dialogo con il capo dell'ufficio Affari riservati Federico Umberto d'Amato».
Nel film si nomina l’ambasciata Usa. Già, gli americani sembrano attrarre molte delle responsabilità. Alla Casa Bianca, in quegli anni, c’è la coppia Nixon-Kissinger. Sicuramente quelle frasi di Saragat che fanno intendere la stretta di Washington sulle decisioni da prendere da parte del governo italiano, possono sembrare verosimili. Ma spingersi fino al punto di far intendere che l’ambasciata di Roma abbia avuto un ruolo nella strage di Piazza Fontana? Alcune fonti consultate da La VOCE di New York, ex diplomatici americani che hanno lavorato negli anni della Guerra Fredda a Roma (anche se giunti negli anni subito dopo la strage), quasi si offendono quando gli diciamo che nel film di Marco Tullio Giordana l’ambasciata Usa appare in quella luce sinistra. Per gli americani “la trategia della tensione” resta una invenzione giornalistica. Eppure nel film, si accenna all’ambasciata ma si aggiunge subito dopo CIA quando si parla di chi copre gli autori fascisti di certe stragi. Quando lo chiediamo alle nostre fonti se gli uomini della CIA dentro l’ambasciata potessero avere qualcosa a che fare con i misteri d’Italia di quegli anni, la risposta che ci viene data è la seguente: “Il funzionario della CIA a Roma era l’unico del personale dell’Ambasciata che poteva comunicare con Washington direttamente, senza dover passare dall’ambasciatore”. Quindi se la CIA fosse stata istruita in un certo modo da Washington, l’ambasciata, il Dipartimento di Stato, potevano anche non saperne nulla?
I film come “Romanzo di una strage” aiutano molto a non far dimenticare, ma la storia d’Italia durante gli anni della Guerra Fredda è ancora tutta da scrivere.
Discussion about this post