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March 14, 2016
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Trump: Make America violent again?

La campagna elettorale di Donald Trump e lo spettro del 1968

Massimo ManzobyMassimo Manzo
Trump: Make America violent again?

Agosto 1968, Chicago: Poliziotti davanti all'entrata della convention democratica (Image by © Bettmann/CORBIS)

Time: 4 mins read

“Amo i vecchi tempi. Sapete cosa avrebbero fatto a tipi così quando si trovavano in posti come questo? Li avrebbero trasportati via in barella”.

È questa una delle tipiche frasi pronunciate da Donald Trump nel corso della sua infuocata campagna elettorale e diretta a un contestatore presente a un suo comizio. Per mesi, da quando è entrato a gamba tesa nell’agone politico, il noto tycoon ha reso tale aggressivo linguaggio un marchio di fabbrica dei suoi affollati raduni, riscuotendo incredibili successi elettorali, ma contribuendo ad alimentare un clima di intolleranza che negli ultimi tempi si è fatto sempre più pericoloso.

Gli scontri di venerdì scorso a Chicago tra i manifestanti anti-Trump e i suoi sostenitori, il cui epilogo è stato la cancellazione del comizio del magante per ragioni di sicurezza, hanno infatti dimostrato che a soffiare sul fuoco della rabbia e della frustrazione le conseguenze possono essere imprevedibili, generando una spirale dalla quale diventa difficile uscire. Non si tratta dell’unico caso di violenza legato ai comizi del milionario newyorkese, ma senza dubbio è a oggi il più grave e si aggiunge a una settimana in cui tafferugli di minor portata sono avvenuti anche a St. Louis, in North Carolina, a Kansas City e a Dayton.

Alla luce degli ultimi fatti, la nostalgia di Trump per i “good old days” suona come una macabra profezia, richiamando alla mente un’epoca, ben più funesta, in cui la violenza politica negli USA era all’ordine del giorno. Per una inquietante coincidenza, proprio sulle strade di Chicago alcuni decenni fa l’America conobbe una delle rivolte più gravi della sua storia politica recente.

Era la fine dell’ agosto 1968 e nella metropoli dell’Illinois si teneva la convention del partito democratico in vista delle imminenti elezioni presidenziali. L’atmosfera dentro e fuori l’International Amphitheatre (dove si svolgeva l’evento) era rovente. Dopo che il presidente democratico uscente Lyndon Johnson aveva deciso di non ripresentarsi per un secondo mandato, il partito doveva fronteggiare al suo interno una tremenda spaccatura. Il motivo del contendere era la crescente protesta in tutto il paese contro la sanguinosa guerra in Vietnam, appoggiata sia da Johnson sia dal suo vicepresidente Hubert Humphrey, la cui candidatura alla nomination, caldeggiata dall’establishment, era mal sopportata da molti dei delegati democratici. A complicare le cose, il fatto che la convention giungesse poco dopo due terribili omicidi che avevano sconvolto l’opinione pubblica americana. Il 4 aprile, a Memphis, un colpo di fucile aveva infatti freddato il leader dei diritti civili Martin Luther King, causando nei giorni seguenti un’ondata di violente rivolte che coinvolsero più di 100 città degli States, mentre il 6 giugno fu Robert Kennedy a essere assassinato, proprio durante la campagna per le primarie democratiche, nelle quali era il grande favorito.

In tale contesto, mentre i restanti candidati cercavano in tutti i modi di fermare l’inevitabile investitura di Humphrey, a Chicago si erano riuniti 10.000 manifestanti decisi a protestare contro la guerra e a esprimere la loro contrarietà alla sua nomination. Per cinque giorni, la città e l’intera nazione assistettero inermi a una durissima guerriglia urbana tra i dimostranti e un numero doppio di poliziotti, esercito e guardia nazionale. Il bilancio fu di 119 feriti tra le forze dell’ordine, 100 tra i dimostranti e di un totale di 589 arresti.

Non bastasse, le conseguenze politiche per i progressisti furono disastrose: se da un lato Humphrey divenne il candidato democratico alla Casa Bianca, dall’altro il suo partito fu sconfitto dal contendente repubblicano Richard Nixon, il quale approfittò del clima di violenze di Chicago per far leva sulla cosiddetta “maggioranza silenziosa” del paese, basando la sua campagna elettorale sul concetti di “legge e ordine”.

Oggi, alcuni analisti politici ipotizzano che le manifestazioni anti-Trump possano sortire un effetto simile, favorendo paradossalmente il tycoon newyorkese nella corsa delle primarie. Previsioni politiche a parte, per ora i sondaggi rimangono propizi al milionario.

wallace trump
George Wallace e Donald Trump

Ma esiste un’altra curiosa analogia tra un protagonista di quel tumultuoso 1968 e uno dei personaggi delle attuali elezioni. Un contributo decisivo alla vittoria di Nixon fu infatti portato da un uomo di nome George Wallace, candidato degli indipendenti alle presidenziali, il quale spaccò il voto progressista favorendo l’ascesa di Nixon. Governatore dell’Alabama, Wallace era in realtà un membro dei democratici, che in polemica con il suo partito decise in quell’anno di candidarsi come autonomo.

Fin qui niente di strano, se non fosse che la sua figura, tra le più controverse della storia americana recente, fu il perfetto esempio di come la violenza verbale possa creare un clima di odio e risentimento fungendo da incentivo per atti brutali. Esponente della corrente più razzista dei vecchi democratici del sud, appena eletto governatore nel 1963 Wallace si oppose con tutte le sue forze ai programmi anti – segregazionisti promossi a livello federale, organizzando picchetti davanti alle scuole per evitare l’ingresso degli studenti di colore e pronunciando odiosi discorsi razzisti. Lo slogan “segregazione ora, segregazione per sempre” divenne uno dei suoi motti, fomentando una interminabile serie di violenze compiute contro la comunità nera dell’Alabama. Il più grave fu nel 1963 l’esplosione di una bomba nella chiesa battista di Birmingham, che portò alla morte di tre bambine. Molti all’epoca, tra cui Martin Luther King, ritennero il governatore moralmente responsabile dell’evento, accusandolo di aver fornito una sorta di “alibi morale” agli attentatori.

Politico popolare negli anni ’60, Wallace provò a candidarsi altre due volte senza successo alle primarie democratiche del decennio successivo, ritrattando le sue posizioni razziste e dicendosi in seguito pentito. Per tragica ironia della sorte, fu egli stesso vittima di un attentato durante la campagna del ’72, rimanendo su una sedia a rotelle per il resto dei suoi giorni e spegnendosi nel 1998.

A parte similitudini nel linguaggio e nella maniera di apostrofare i contestatori ai propri comizi, Trump è fortunatamente ancora lontano dal diventare il Wallace del 2016. Tuttavia, in una nazione rabbiosa e in piena crisi di identità, dobbiamo sperare che i “vecchi tempi” da lui auspicati rimangano un doloroso ricordo del passato.

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Massimo Manzo

Massimo Manzo

Di madre americana e padre siculo, nasco tra le bellezze della Sicilia greca e gli echi del sogno americano. Innamorato della Storia, che respiro fin da bambino, trasferisco me e la mia passione a Roma. Qui, folgorato lungo la via, mi converto al giornalismo storico e di analisi geopolitica, “tradendo” così la laurea in legge nel frattempo conseguita. Appassionato di viaggi archeologici, oltre che della musica dei Beatles e dei campi da tennis, collaboro come giornalista freelance con più riviste di divulgazione, tra cui InStoria e Focus. Oggi mi divido tra la natia Sicilia e la città eterna, sempre coltivando l’amore per gli States.

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