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Lidia Yuknavitch e l’acqua della memoria

Sotto la pioggia newyorkese tra ricordi, scrittura e resistenza

Michele CrescenzobyMichele Crescenzo
Lidia Yuknavitch e l’acqua della memoria

Lidia Yuknavitch

Time: 4 mins read

3 ottobre 2022. New York. Lidia Yuknavitch uscì dal Brooklyn Book Festival, dove aveva partecipato alla sessione Police State per discutere del suo ultimo romanzo L’impulso (trad. Alessandra Castellazzi; Nottetempo). La pioggia cadeva lenta, leggera, ma abbastanza insistente da bagnarle il viso.

Le vennero in mente tutte le storie che l’avevano portata fino a quel momento, a come l’acqua fosse sempre stata la sua compagna e la sua metafora. L’acqua che sua madre, persa tra i bicchieri, non era mai riuscita a vedere davvero. L’acqua intrisa di cloro della piscina che l’aveva salvata dalle urla e gli attacchi sessuali del padre e che le aveva fatto conoscere il suo allenatore — attento, metodico, diverso dagli uomini che conosceva — che le aveva insegnato la disciplina, fino al trasferimento in Florida, dove ogni bracciata sembrava un passo verso l’Olimpiade. Lì, però, iniziò a bere. Lì capì che l’acqua non bastava. Il talento le valse una borsa di studio in Texas, una corsia preferenziale verso il futuro. Ma il 1980 e il boicottaggio delle Olimpiadi da parte degli USA spezzarono il sogno prima ancora che potesse toccarlo. La droga, l’alcol, il corpo che si spezzava dentro e fuori dall’acqua.

Il vuoto poi la scrittura, un’altra corrente. Poi i libri, i premi, i tre matrimoni, il compagno e regista Andy Mingo e il figlio Miles.

Si fermò, alzando lo sguardo verso il cielo grigio, e lasciò che l’acqua la toccasse, si avvicinasse alla parte più vera di se stessa. Proprio come le parole.

Lidia Yuknavitch, “La cronologia dell’acqua”

Ripensò al manifesto che aveva scritto per il suo workshop di scrittura Scrivere con e attraverso il corpo. Quello era il suo fondale, la corrente sotterranea che muoveva ogni parola. Lo aveva scritto come si nuota in mare aperto: senza paura di immergersi nelle profondità più oscure, lasciando che il corpo diventasse tutt’uno con il movimento.

Ne ricordava ogni punto: penso che genere e sessualità siano territori di possibilità. Lo erano stati nel suo corpo, nelle sue parole, nella sua lotta per raccontare storie che scardinassero le gabbie di genere imposte dal mondo. Nei suoi libri non c’era vergogna né censura: in Dora: un caso clinico (trad. di Costanza Prinetti; Indiana), aveva ribaltato i miti della psicoanalisi, restituendo alla sua protagonista una voce sfrontata, libera. In Lasciarsi Cadere (trad. Alessandra Castellazzi; Nottetempo) aveva esplorato il trauma e l’arte come atti di rinascita. E in Il libro di Joan (trad. Laura Noulian; Einaudi) aveva spinto oltre il concetto stesso di identità, immaginando un futuro in cui il genere si dissolveva come confini tracciati sulla sabbia.

Una goccia di pioggia le cadde sul palmo aperto, ecco un altro punto del suo manuale: penso che lo scrittore sia un luogo attraverso cui passano le intensità. Scrivere era sempre stato come nuotare in acque profonde. Pericoloso, eppure necessario soprattutto quando aveva scritto La cronologia dell’acqua (trad. Alessandra Castellazzi; Nottetempo). Quel libro, finalista per il premio PEN Center USA e vincitore del PNBA Award e dell’Oregon Book Award Reader’s Choice, aveva raccontato tutto: la sessualità, l’abuso, l’elaborazione del lutto, il superamento della sofferenza. E ora quella storia sarebbe diventata un film diretto da Kristen Stewart, con Imogen Poots nei suoi panni.

La pioggia aumentava. Gocce più fitte si raccoglievano sulle sue braccia. Penso che la narrazione sia quantistica. Non esiste un solo modo di raccontare una storia. Ogni scelta, ogni salto temporale, ogni frammento di memoria lasciava aperta una possibilità. In Cronologia dell’Acqua, ad esempio, decide di stravolgere le regole dei memoir tradizionali che seguono una sequenza cronologica, adottando una narrazione frammentata, riflettendo la natura caotica e disordinata della memoria e dell’esperienza umana.

Un rivolo d’acqua le scivolò lungo il collo. Penso che la letteratura sia ciò che si ribella ai copioni oppressivi della socializzazione e della buona cittadinanza. Lo aveva fatto in ogni pagina. In Dora: un caso clinico aveva preso il caso clinico più famoso di Freud e l’aveva trasformato in un’eroina punk, una giovane ribelle che rifiutava di essere diagnosticata e controllata. Non si scrive per compiacere, si scrive per scuotere.

Si asciugò una goccia dalla fronte con il dorso della mano. Penso che lo spazio del fare arte sia la libertà di essere. Lo aveva imparato con le mani sporche di vernice, lavorando come imbianchina in una squadra di soli uomini. Aveva imparato il ritmo, la fatica, la soddisfazione di vedere qualcosa prendere forma. E più tardi, insegnando scrittura creativa senza mai dare regole fisse, senza mai dire ai suoi studenti cosa dovevano fare.

Chiuse la mano, intrappolando l’acqua tra le dita. Penso che le cose che ci accadono siano vere. La scrittura è un altro corpo. Aveva visto la verità in Lasciarsi cadere, il romanzo che raccontava la fotografia di una bambina sopravvissuta a un bombardamento e grazie al quale aveva vinto il Ken Kesey Award e il Reader’s Choice Award perché sapeva che la bellezza e l’orrore esistono nello stesso scatto.

Inspirò il profumo della pioggia nell’aria. Credo nell’arte come gli altri credono in Dio. Aveva creduto nelle parole come forma di sopravvivenza, nella capacità di riscriversi di continuo.

La pioggia continuava a cadere e Lidia ripensò a tutto ciò che aveva scritto. C’era ancora tanto da raccontare. L’impulso era la sua ultima lettera al mondo, un romanzo visionario che intreccia passato, presente e futuro attraverso la storia di una bambina capace di viaggiare nel tempo.

Abbassò la mano, lasciando scivolare via l’acqua. La pioggia non smetteva, ma lei riprese a camminare. Lei, come l’acqua, non si sarebbe mai fermata.

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Michele Crescenzo

Michele Crescenzo

Michele Crescenzo legge e scrive, appena può. È nato a Napoli nel’77 dove si è laureato in Sociologia. Vive a Milano dal 2002, dove lavora in una multinazionale americana. La sua quotidianità è alternata da numeri e parole. Da lunghissime call conference internazionali alla stesura di articoli letterari. Scrive recensioni per Satisfiction. Gestisce “Ti ho Rivista” tabloid sul mondo delle riviste indipendenti italiane. Organizza eventi culturali alla libreria milanese Gogol&Company. Cura la column “Gotham's Writers” su La Voce di New York. Nel tempo libero scrive: Nel 2009 ha vinto il Premio Chatwin, concorso internazionale sul viaggio. Ha pubblicato racconti per antologie e riviste letterarie (‘tina, Pastrengo, Talking Milano, Lettura la newsletter del corriere della sera).

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