Il successo della Festa Nazionale della Repubblica, il 3 giugno, a cui hanno partecipato oltre mille persone, ha confermato il Consolato come punto di riferimento per la comunità italiana e italoamericana di New York. Questi numeri non si erano mai visti. Cosa c’è di nuovo? “La Festa a The Glasshouse è stata un riscontro della nostra presenza in mezzo alla comunità, frutto di anni di lavoro in cui il Consolato ha allargato la rete di contatti in tutti i settori – ci ha detto il Console Generale d’Italia Fabrizio Di Michele. – Oltre al numero senza precedenti di partecipanti, ha colpito anche l’età media: tanti giovani dal mondo della ricerca, dell’università, delle start-up. E si sono moltiplicate le richieste per essere invitati anche da parte di coloro di cui non conoscevamo l’esistenza”.
Come riuscite a tenere traccia della demografia della comunità?
“A questo proposito, è importante sottolineare che la nostra circoscrizione – che comprende New York, Connecticut e gran parte del New Jersey – conta circa 105 mila italiani iscritti all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero). Tuttavia dall’Anagrafe noi non possiamo recuperare alcuna informazione sul profilo e attività professionale dei cittadini italiani. Questa rete di contatti si costruisce a parte, attraverso relazioni, eventi e il tam tam della comunità. Sono elenchi che cambiano ogni giorno, crescono continuamente. Avere una fotografia aggiornata è difficile. È un costante work in progress, cui gli italiani possono contribuire in modo attivo, chiedendo di esser coinvolti agli eventi del Consolato.”
Quindi ci sono ancora tanti italiani che non conoscete.
“Certamente! Peraltro anche se li conoscessimo non potremmo invitarli tutti alla Festa Nazionale! Ogni anno cresce il numero degli invitati e le aspettative della comunità. Per essere all’altezza, quest’anno abbiamo cambiato la location della festa e fatto più ampio ricorso agli sponsor”.
È evidente che, rispetto alle edizioni precedenti, gli sponsor sono aumentati. Lo interpreta come un segno di avvicinamento alle istituzioni da parte della comunità imprenditoriale italiana?
“Fa parte dello stesso percorso: da parte nostra cerchiamo da anni di abbracciare le nostre realtà imprenditoriali e conoscere i numerosi manager italiani. In parallelo c’è stata una crescente attenzione del business verso il Consolato. È un circolo virtuoso, che finisce per alimentarsi autonomamente. Sin da quando, nel 2022, abbiamo riportato la Festa Nazionale fuori dal palazzo di Park Avenue, abbiamo scommesso sul sostegno delle aziende italiane e questo non è mai venuto meno. Non certo perché abbiano bisogno della nostra “pubblicità”, ma perché ci tengono a esser parte dell’evento italiano più importante dell’anno a New York”.
Grande ospite della Festa della Repubblica: il sindaco di New York, Eric Adams. Evento inedito, mai verificatosi prima d’ora. La sua presenza è dovuta più a un rapporto che ha con il Consolato o l’influenza della comunità italiana sulla campagna elettorale del 2025?
“È chiaro che la comunità italiana e ancora di più quella italo-americana sono molto rilevanti a New York. Ma credo che la presenza del Sindaco, che di solito non va alle Feste Nazionali degli altri Paesi, sia stata dovuta anche alle relazioni personali consolidate in questi anni. D’altra parte, sin dopo la sua nomina, il Sindaco mi aveva promesso che sarebbe venuto a visitare il Consolato (altro fatto inedito) e mantenne poi la sua parola, incontrando nella nostra sede l’Ambasciatrice Mariangela Zappia”.
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Lei nel suo discorso ha distinto gli italiani dagli italo-americani, e questa differenza si nota. Quali difficoltà emergono nell’approccio con le due comunità e in che misura il Consolato italiano può essere un punto di incontro?
“In generale, esiste un divario fra italiani giunti qui negli ultimi 20-30 anni e quelli di seconda, terza e quarta generazione. Questi ultimi sono a tutti gli effetti americani, anche se sono legati con orgoglio alle proprie origini italiane. Tranne in certi casi, specialmente nel business, sono comunità che si frequentano e si conoscono ancora poco. Forse il Consolato è l’istituzione che ha migliore conoscenza di entrambe e del potenziale che esprimono. Quindi uno degli sforzi è proprio di far conoscere e interagire meglio le due comunità perché da entrambi i lati ci sono eccellenze, di grandissimo valore, ai vertici di tutti i settori, della città, dello Stato, del Paese”.
E le difficoltà nel tentativo di unirle quali sono?
“È un tema delicato. Si tratta di differenze di riferimento valoriali e culturali perché spesso la comunità italo-americana si riconosce in tradizioni che appartengono meno all’Italia di oggi e quindi sono meno condivise e sentite dalle nuove generazioni che si trasferiscono qui. Inoltre, alcuni italiani guardano agli italo-americani attraverso stereotipi che non rendono giustizia a una comunità che, nella sua complessità ed eterogeneità, è non solo integrata, ma di grande successo. Ritengo anche che talvolta si sottovalutino i sacrifici e il duro lavoro che hanno portato i migranti italiani del secolo scorso a scalare ogni posizione nella società americana”.
Attraverso i media, questo rapporto si può migliorare?
“Qualsiasi strumento, evento, occasione che aiuti le due comunità a incontrarsi e stare insieme è suscettibile di migliorare il rapporto. Una delle nostre sfide è agganciare le giovani generazioni di italo-americani, perché spesso ci interfacciamo con persone dell’età medio-alta, che appartengono all’associazionismo tradizionale. Ciò semplificherebbe anche la relazione fra i due gruppi, perché non si tratta solo di un divario culturale, ma anche generazionale: gli italiani di New York sono mediamente più giovani degli italo-americani che gravitano attorno al Consolato”.
Ci sono più di 105 mila iscritti all’AIRE. Però quando si tratta di votare per i COMITES si presentano poche persone. Perché questo fenomeno?
“Forse c’è un problema strutturale perché la legge che istituisce i COMITES risale a un’epoca in cui ci si rivolgeva ancora all’immigrazione più tradizionale e per molti anni hanno rappresentato solo quel gruppo lì. In alcuni casi, come in quello di New York, questi organismi si sono peraltro ringiovaniti, hanno una maggiore presenza femminile e spirito di iniziativa. Tuttavia permane un divario di comunicazione con il resto della comunità. Noi come Consolato cerchiamo di aiutare, anche se la credibilità del COMITES dipende in ultima analisi dalle sue attività, dalla sua capacità di farsi conoscere, di fare la differenza con diverse attività. Probabilmente servirebbero strumenti e risorse maggiori, soprattutto in una realtà competitiva come quella della Grande Mela. È un lavoro abbastanza complicato perché, alla fine, il COMITES nasce su base volontaria: sono italiani che gli dedicano il proprio tempo libero”.
Nell’ultimo periodo c’è stato un aumento nell’erogazione e nella disponibilità dei servizi consolari. Cosa è cambiato nello specifico e cos’altro si potrebbe fare?
“Da una parte questo cambiamento è dipeso dal rafforzamento del personale che, dopo il Covid, era ridotto al lumicino. Dall’altra ha inciso una razionalizzazione dei servizi e lo sforzo di migliorare la comunicazione e l’interazione con l’utenza. La nostra produttività è aumentata in modo esponenziale anche rispetto al periodo precedente alla pandemia. Gli italiani se ne sono accorti, come ci confermano ogni giorno scrivendoci o attraverso le recensioni Google, in cui il voto degli utenti è passato da circa due a quattro stelle in relativamente poco tempo e continua a migliorare. È chiaro che c’è sempre del lavoro in più da fare; non siamo certo immuni da errori o da carenze. Ma è ben percepibile che la qualità dei servizi è migliorata, e ne siamo fieri”.
Dalla fine del Covid si è verificato un incremento di richieste per la cittadinanza italiana. Come se lo spiega?
“Non abbiamo dati di raffronto precisi, ma è evidente che le richieste sono aumentate in modo esponenziale. Qui a New York c’è sempre stata una domanda di cittadinanza per ragioni “sentimentali” o anche per interesse, ma mai così importante. Quanto alle spiegazioni, abbiamo informazioni parziali e statisticamente non rilevanti. Molti ci dicono di aver fatto domanda di cittadinanza in considerazione del quadro politico generale di questo Paese, ma anche l’esperienza del Covid potrebbe avere inciso con la possibilità di movimento da e verso l’Europa, venuta meno in quegli anni”.
Se dovesse fare un bilancio del suo mandato?
“È ancora troppo presto!”