Spencer Ostrander mi ha accolto qualche mese fa nel suo studio, ai piedi di un ponte da cui rimbomba la metropolitana, su una strada che divide due zone di Williamsburg, una ebrea ortodossa e l’altra dominicana, che non si parlano tra loro. Ho scritto di lui per “La Lettura” del Corriere della sera, a proposito di Bloodbath Nation («Nazione sanguinosa»), il libro fotografico che ha realizzato con suo suocero Paul Auster.
Per un anno Ostrander ha fatto ricerche su tutte le sparatorie di massa avvenute negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2019. Ha scelto 30 luoghi e ha guidato in lungo e in largo per fotografarli, in modo fattuale, senza particolare illuminazione e scegliendo a volte la stessa angolazione delle foto apparse sui quotidiani. Non ci sono persone, né armi, negli 84 scatti scelti per il libro. Ha deciso di fotografare gli spazi perché “uno spazio, un luogo non può essere mai cancellato – mi ha detto – anche se alcuni di questi edifici sono stati abbattuti o dati alle fiamme. Voglio che la gente pensi: “Questa potrebbe essere la mia chiesa, la mia sinagoga, la mia scuola, il mio autolavaggio. Può accadere ovunque. Voglio che i lettori guardino quel prato di una fattoria Amish e si chiedano: “Perché sto guardando un prato?”».
Però – e questa è una storia che non avevo ancora scritto – davanti a una tazza di tè, nel suo studio fotografico “vecchia Brooklyn”, Ostrander mi ha parlato anche di un altro libro di immagini (anch’esso con i testi di Auster). Mi è tornato in mente in queste ultime settimane, dopo aver scritto per questa rubrica di diversi casi di persone ordinarie uccise a Brooklyn. Il libro si intitola “Long Live King Kobe” ed è la storia di Tyler Kobe Nichols. Ostrander vi si imbatté parlando con il proprietario di una agenzia funebre che gli aveva detto che si trattava di una vittima d’arma da fuoco. Ma quando si recò al funerale, la madre di Kobe gli spiegò che era stato invece accoltellato in strada, per aver difeso il fratello Shayne che, mentre tornavano a casa dal barbiere, aveva incrociato lo sguardo della persona sbagliata.
Kobe (che giocava a basket proprio come Kobe Bryant) era il più piccolo ma anche il più maturo dei suoi tre fratelli e aveva aiutato Shayne, 24 anni, ad attraversare un periodo difficile. Ne era orgoglioso, tanto da tatuarsi la scritta “My Brother’s Keeper”, che si sarebbe rivelata profetica. Nonostante questa storia non fosse ciò che cercava, Ostrander restò al funerale, chiese il permesso di fotografarlo e, prima di andar via, di abbracciare la madre di Kobe. Poi per mesi ha intervistato ciascuno dei suoi famigliari, imparando a conoscerlo dopo la sua morte.
Quella famiglia ha aspettato a lungo che arrivassero i media a raccontare la storia di Kobe. Non è mai successo. Alcuni, incluso Ostrander, pensano che se Kobe avesse avuto la pelle bianca, la sua tragica uccisione avrebbe ricevuto maggiore attenzione. E’ successo nel quartiere di Kensington, dove questo tipo di violenza non è comune. “Non c’è ragione per cui fu pugnalato, non conosceva il killer, era ad un isolato da casa – ha raccontato Ostrander -. Questa è una famiglia middle class, non sono gangster o spacciatori, è una brava famiglia americana. La gente deve imparare a provare empatia”.
Una delle recensioni del libro nota: “Questo non è crimine di neri-contro-neri, è il modo americano di morire”. I proventi del libro vanno ad una fondazione non-profit creata a Brooklyn in onore del ragazzo. Si chiama, come il libro, Long Live King Kobe, e punta a prevenire la violenza di strada e a tenere incontri tra le madri delle vittime. Raccontare la storia di Kobe lo tiene vivo, dice la sua famiglia. Nel frattempo, Ostrander e la moglie Sophie Auster sono diventati genitori del piccolo Miles.