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Montauk Club: l’ultimo social club rimasto a Brooklyn

È stato completato nel 1891 dall’architetto Francis H. Kimball imitando il Ca’ D’Oro di Venezia

Viviana MazzabyViviana Mazza
Montauk Club: l’ultimo social club rimasto a Brooklyn

Montauk Club - wikimedia

Time: 3 mins read

Ci passavo davanti ogni volta che andavo a prendere mia figlia a scuola, chiedendomi cosa fosse quello strano edificio in stile tardogotico veneziano con fregi che celebrano le imprese degli indiani e teste piumate scolpite sulla recinzione tutt’intorno. La targa (“Landmarks of New York”) dice che “il Montauk Club” è stato completato nel 1891 dall’architetto Francis H. Kimball imitando il Ca’ D’Oro di Venezia. Mercoledì sera finalmente ne ho varcato la soglia.

Avevo scritto all’indirizzo email, esprimendo la mia curiosità e ricevendo in poche ore una risposta firmata “Olga & Carol”, la vice-manager e la manager del club: “Viviana, suona pure il campanello quando arrivi”. Al piano terra, intorno ad una enorme tavolata sedevano una trentina di uomini con le loro copiose pinte di birra per la cena della charity più antica della città, i Friendly Sons of Saint Patrick, di cui fa parte il vicepresidente del club, Dylan Yeats, proprio come un tempo suo nonno, che fu anche presidente del Montauk Club. In una stanza al piano di sopra, nove persone di ogni età e colore sorseggiavano cocktail guardando la prima puntata di “The Gilded Age” la serie tv di Hbo sull’età dell’oro a New York. È una storia di nuovi ricchi (JPMorgan, i Vanderbilt, i Rockefeller) che hanno problemi a farsi accettare dalla Vecchia New York dove tutti si dicono eredi del Mayflower e dove unirsi ad un club è, appunto, una delle conferme di avercela fatta in società.

Il Montauk Club è l’ultimo social club rimasto a Brooklyn, su un centinaio circa che ne esistevano nell’Età dell’oro, ci spiega Mary Brennan, 73 anni, nell’ampia sala da pranzo con fregi alle finestre, piuttosto piena per un mercoledì sera. Brennan, che è tra i membri da oltre trent’anni, è diventata presidente nel 2021 (“Nessuno voleva farlo”), dopo che il club è quasi finito in bancarotta. Per lavoro si è occupata della costruzione di alloggi popolari, ha cresciuto i suoi figli a Park Slope. Sottolinea di non aver salvato il Montauk Club da sola, ma con l’aiuto di un gruppo di persone che ci tenevano quanto lei (quando le chiediamo una foto insiste per posare insieme con Dylan, e con Jana Littleton e Masha Bezlepkina, sedute al bar lì vicino). “Sapevamo che altrimenti sarebbe stato venduto e trasformato in appartamenti”, come è già accaduto al terzo e al quarto piano dell’edificio (e il piano sotterraneo ospita uffici). “Paradossalmente è più accessibile al pubblico come club privato”.

Da destra: Mary Brennan, presidente del Montauk Club, Dylan Yeats, vicepresidente, Jana Littleton e Masha Bezlepkina.

“Il Covid ci ha mostrato che il modo in cui venivano gestite le finanze del club non andava, paradossalmente è stato una buona cosa perché ci ha mostrato che dovevamo fare le cose diversamente”, continua Brennan. “Durante la pandemia, la gente lavorava da casa e sentiva la mancanza dell’interazione sociale. Quando cominciarono ad esserci i vaccini, molti sentirono che venire qui era più sicuro che andare in un bar con estranei”. In passato ci sono stati membri famosi, come l’attrice Holly Hunter (“Ma lei non veniva, vedevamo suo marito”), l’ex governatore di New York Hugh Kerry o James Donovan, il negoziatore per il rilascio degli ostaggi da Cuba dopo il fallimento della Baia dei Porci (interpretato da Tom Hanks nel film “Il ponte delle spie”). Durante il Covid un centinaio dei 220 membri andarono via, ma oggi sono arrivati a 450, “più quanti ne avevamo da decenni”.

“Una volta per unirsi ad uno di questi club di Brooklyn o di New York dovevi essere uomo, bianco, ricco – e non bastava – dovevi avere una certa posizione sociale”, continua Brennan. “Una cosa inusuale del Montauk è che sin dall’inizio accolse ebrei e cattolici: unico nella città di Brooklyn e di New York”. La nuova direzione cerca di tornare alla funzione che aveva quando fu fondato nel 1889 (incontrare gli amici e farsene di nuovi), ma senza l’esclusività. “La crisi del club era legata al tentativo di imitare quelli di cent’anni fa. Abbiamo rovesciato il paradigma, non abbiamo più niente in comune nemmeno con alcuni attuali club di Manhattan. A volte mi chiedono quale sia il dress code. Io rispondo: non indossate niente di offensivo, per il resto va bene tutto”.

Brennan non sa dire il perché del nome Montauk, a parte il fatto che dare ai club nomi di tribù native era popolare tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Pensarono anche di chiamarlo il Setalcott Club, un’altra tribù indiana di Long Island. E’ stato l’aspetto dell’edificio ad attirare Genevieve Coe, bibliotecaria, e Devin Shomaker, agricoltore urbano, una giovane coppia che incontriamo alla proiezione di “Gilded Age”. Notano come i costi annuali sono ragionevoli: 605 dollari a persona, si legge sul sito web, con sconti sostanziali per chi ha meno di 25 anni o più di 70. Giovedì c’è la serata “Dungeon and Dragons” (come nella serie tv Stranger Things); Brennan con un amico scrive “gialli” che metteranno in scena. Nell’androne gli irlandesi si salutano, ma poi optano per un ultimo drink. Ci viene a salutare la tesoriera, si chiama Annamaria Spyropoulou, italo-greca: “Se ti iscrivi anche tu facciamo una serata italiana!”.

Montauk Club bar
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Viviana Mazza

Viviana Mazza

Corrispondente dagli Stati Uniti del Corriere della Sera dal 2022. Scrive di politica, cultura e società per il quotidiano dal 2006. Ha un Master of Science in Giornalismo conseguito alla Columbia University e si è specializzata in Usa e Medio Oriente. E' autrice di diversi libri tra cui "Storia di Malala" (Mondadori, 2013) e "Le ragazze di Via Rivoluzione" (Solferino, 2019).

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