Jonathan Lethem è considerato uno dei grandi scrittori di Brooklyn, ma per diventarlo se n’è dovuto separare. Mentre io oggi vivo a due passi dal quartiere di Boerum Hill, Lethem sta in California dove insegna al Pomona College. Ma per lui è impossibile lasciare davvero quel rettangolo di strade dove è cresciuto. Vi è tornato spesso, nella scrittura e nella vita, e mi ha raccontato in una recente intervista per La Lettura del Corriere della Sera che è tornato più volte, mentre scriveva il suo ultimo romanzo, Brooklyn Crime Novel, da poco uscito in America e che prossimamente verrà pubblicato in Italia da La Nave di Teseo.
“Cercavo di assorbire il presente, ma in realtà lo guardavo inevitabilmente con gli occhi di chi non può che vedere il passato ovunque”, mi ha detto lo scrittore.
Non c’è una collina a Boerum Hill, è in pianura. Il nome “Boerum” appartiene a una famiglia di coloni olandesi proprietari di schiavi: fu una signora, Helen Bucker, fondatrice dell’associazione di Boerum Hill, a coniarlo nel 1964. Quando Lethem era ragazzino, viveva con i genitori hippie in questo quartiere abitato soprattutto da famiglie afroamericane e portoricane di classe medio-bassa, che poi dalla fine degli anni Novanta la gentrificazione ha trasformato in uno dei più costosi di New York.
In un recente pomeriggio d’inverno Lethem era a Brooklyn per una presentazione del suo libro. Era andata ad ascoltarlo la sua maestra di quarta elementare ed era circondato da ragazzi con cui è cresciuto. Mi ha confessato di desiderare fortemente di parlarne con persone del quartiere. C’è un momento del romanzo in cui vediamo un vecchio amico di infanzia di un romanziere che lo accusa di aver “falsato” Boerum Hill nei suoi scritti e di aver narrato il quartiere “come fosse una canzone pop”, di aver “gentrificato la gentrificazione”.
Vent’anni dopo aver scritto La Fortezza di solitudine, dedicato alla Brooklyn della sua infanzia, Lethem vuole correggere il modo in cui vediamo e raccontiamo la gentrificazione. In questi vent’anni, mi ha detto, “sono cambiati anche il nostro linguaggio e la nostra capacità di riflettere sul passato, e ho visto Brooklyn continuare a cambiare”. È un’opera di amore e rimorso, mi ha spiegato più tardi in un’email. Non ha spiegato perché usasse quella parola: “rimorso”. Forse, è impossibile narrare un luogo che si ama così tanto ed essere del tutto soddisfatti del risultato.