Il “gumbo party” di Alan Chin è nato quando alcuni grandi fotografi di New York tornarono a casa, nel 2005, dopo aver assistito alla devastazione dell’uragano Katrina. “Volevamo celebrare New Orleans, gli eccessi di cibo e alcol. L’abbiamo fatto quasi ogni anno da allora… finché circostanze al di fuori del nostro controllo non ci hanno costretti a sospenderlo, come tutto il resto su questo pianeta”, spiega Alan nell’invito.
Ci siamo conosciuti vent’anni fa, durante la Convention del partito repubblicano a New York, quando l’intera città fu attraversata da manifestazioni di protesta, sorvolate da elicotteri, accerchiate da forze dell’ordine che arrestarono 1800 persone. I fotografi, come sempre, erano in prima linea.
Nel suo studio a Red Hook, intorno a un pentolone gigantesco di gamberi, salsiccia, ocra, incontriamo Nick, regista di una serie Netflix intitolata Conflict, in cui i fotografi raccontano i conflitti che hanno vissuto, e non solo le guerre all’estero: uno degli episodi più toccanti è sulla violenza domestica. David Davis ci racconta invece di come per una vita abbia lavorato come giornalista sportivo per LA Weekly, ma ora realizza libri: non importa se vendono poco, il punto per lui è far qualcosa che lasci un segno.

Una giovane giornalista spiega di aver realizzato un podcast sulla Bora di Trieste, la presentiamo ad un tizio che finanzia la costruzione di mulini a vento. L’appartamento è in una zona industriale, davanti a una enorme gru in disuso del porto. Dentro pendono due quadri non finiti: l’autrice ci spiega che le persone raffigurate sono cambiate e lei non sa più bene cosa fare.
Questa serata ci ricorda che Brooklyn non è ormai solo terra di hipster e di mercificazione della cultura, ma un posto dove la creatività e la ricerca di significato tentano ancora di incontrarsi. Alan Chin è stato candidato due volte al Pulitzer, nel 1999 e nel 2000, per il suo lavoro in Kosovo (una delle sue foto è al Moma), ma una delle prime cose che mi colpirono vent’anni fa, quando conobbi questa comunità di fotografi, è che, un po’ per ragioni di sopravvivenza e un po’ per passione, alternavano il lavoro all’estero a quello in patria. Da liceale diciottenne newyorchese, Alan si trovò per caso a piazza Tiananmen, la notte del 3 giugno 1989, e quell’esperienza gli cambiò la vita.
Era la prima volta che si recava in Cina con i suoi genitori: avevano visitato il villaggio d’origine, nei pressi di Taishan nella provincia di Guangdong. La mattina del 4 giugno, quando sentì che tutto taceva nel rumoroso vicolo del suo hotel pechinese, capì che c’era qualcosa di strano. Le foto che scattò quel giorno con la sua Leica M3 – ne vendette quattro, qualche giorno dopo, alla Reuters a Hong Kong a 100 dollari l’una – gli insegnarono che “il semplice atto di essere testimone e di poterlo registrare con le lenti ha un potere e un significato, non solo per me stesso ma per chiunque altro possa vedere le immagini che ne risultano”.
Il suo ultimo libro fotografico, Infinity Goes Up On Trial (Jet Age Books), è una esplorazione della polveriera pronta a esplodere che sono diventati gli Stati Uniti del suprematismo bianco, della misoginia, delle diseguaglianze crescenti tra ricchi e poveri. Il titolo è un verso della canzone Visions of Johanna di Bob Dylan. Sarà un’ottima guida verso questo 2024 elettorale. La copertina è un’opera di sua figlia: a ricordarci che, anche nella più cupa disillusione, resta speranza per il futuro.