Sono partiti in tre, ora sono più di venti. Si parla degli imprenditori italiani che hanno fondato le loro start-up a New York, giovani aziende che si concentrano su arte e fashion, Big Data, intrattenimento e scienze biologiche.
Maria Teresa Cometto, giornalista del Corriere della Sera e co-autrice di “Tech and the City. Startup a New York un modello per l’Italia”, ha presentato gli ultimi protagonisti in un incontro al consolato focalizzato proprio sui temi business, innovazione e tecnologia. Nel salutare i partecipanti, il console generale Fabrizio di Michele ha evidenziando la rilevanza della posizione newyorkese nel campo delle start-up e, soprattutto, dell’influenza del denaro in un settore nel quale la città è seconda solo alla Silicon Valley.

“Dieci anni fa, Alessandro Piol ed io abbiamo intervistato 50 persone per scrivere il nostro libro, che parlava della comunità tech delle start-up a New York. Gli italiani in questo campo erano solo tre”, ha raccontato Cometto. “La rapida ripresa della città dopo la crisi finanziaria del 2008 è stata spinta, in parte, proprio da questo settore. Il boom non è finito: nel 2013 c’erano 1000 start-up a NYC, ora ce ne sono 9000”.
Il console Di Michele ha dichiarato di essere nella posizione ideale per facilitare il networking e la condivisione di idee e consigli tra i fondatori italiani e l’ospitalità nella sede di Park Avenue va proprio in questa direzione.
Antonio Tomarchio, Alessandro Bogliari e Stefano Pacifico, tre tra gli imprenditori già coinvolti nell’ambiente delle start-up newyorkesi, hanno raccontato le esperienze e gli obiettivi che li hanno spinti ad aprire le loro aziende proprio nella Grande Mela.
Tomarchio è un ingegnere con una laurea al Politecnico di Milano ed un passato all’Ecole Central di Parigi. Sei anni fa è diventato co-fondatore di Cuebiq, una società di intelligence offline che aiuta coloro che si occupano di marketing a capire l’impatto reale delle loro campagne multicanali.
“Siamo in 110, metà qui e metà a Milano. Ci sono molte differenze tra i due paesi: negli USA, per esempio, gli ingegneri devono rendere molto più conto ai clienti rispetto all’Italia”, ha detto. “Le risorse umane sono indispensabili proprio per gestire le differenze culturali: creare connessioni, fare training, passare tempo insieme e comunicare bene”.

Stefano Pacifico, invece, si è laureato in Computer Science alla Sapienza di Roma, e ha un master nello stesso campo ottenuto dalla Columbia. Quattro anni fa, ha fondato insieme a David Heeger EpistemicAI, con la missione di “migliorare l’accesso alla conoscenza ed aiutare i ricercatori a raggiungere più velocemente quelle scoperte che salvano i pazienti”.
“Abbiamo ricevuto molto supporto dalle istituzioni americane”, ha dichiarato Pacifico. “Il capitale è sempre un problema per le start-up: il governo italiano potrebbe facilitare l’immissione di capitale dando istruzioni alle nuove aziende”.
Alessandro Bogliari, si è laureato in Graphic Design e Direzione Artistica alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, ottenendo poi un Master in Innovazione e Management Digitale a Copenaghen. Da quattro anni è il CEO di The Influencer Marketing Factory, un’agenzia che aiuta le compagnie ad aumentare la loro “brand awareness” e a vendere di più utilizzando i social, come TikTok, Instagram, YouTube, e Triller.
“Mi sono trasferito da Milano a Copenaghen, poi a Miami ed infine a New York. Sono qui per via dell’energia di questa città, delle vibrazioni che mi trasmette,” ha raccontato Alessandro. “I newyorkesi vanno dritti al punto”.
Parlando dell’impatto della pandemia, i tre hanno convenuto che questa abbia inizialmente rappresentato una sfida, che molte start-up hanno rischiato di perdere. Tutte e tre le aziende, però, hanno finito per giovarne, navigando bene nello smarrimento generale. “Le crisi – ha detto Tomarchio – aprono nuove opportunità”.