La vita notturna di New York è tornata a crescere negli ultimi mesi ed è un grande conforto rientrare nei locali per il solo piacere di ascoltare musica dal vivo. Anche se una confluenza di forze – la pandemia, la volatilità degli immobili in città, una cultura sempre più digitale – ha sconvolto il panorama musicale e in particolare quello del jazz. In un momento in cui i newyorkesi sono pronti a una rinnovata ondata di note improvvisate, la musica jazz post pandemica sembra prosperare in una miriade di nuovi locali.
Il fenomeno è causato da una forte resistenza per gli artisti emergenti, che con la loro forza creativa trascinante sono riusciti a riappropriarsi di una nuova definizione di jazz che sta contribuendo a formare una fetta di pubblico diversa, giovane ed esigente: il nuovo jazz newyorkese è un veicolo di espressione per musicisti spesso giovanissimi, di tutte le estrazioni sociali, protagonisti di una vera e propria transizione.

Anche se l’idea dei club come “l’autentica casa del jazz” rimane una convinzione gelosamente custodita nell’immaginario americano, già cinquantanove anni fa, il poeta e critico Amiri Baraka scriveva sulla rivista DownBeat che “i principali club di New York non erano interessati ai nuovi stili del jazz”. Improvvisazioni più libere, conflittuali e afrocentriche che avevano preso piede allora – Ornette Coleman, John Coltrane e il rivoluzionario Cecil Taylor – non erano più i benvenuti nei jazz club. E così gli artisti dell’epoca, come oggi, prenotavano le loro jam session in nuove location. Joel Ross, 26 anni, un celebre vibrafonista che vive a Brooklyn, racconta che negli ultimi due anni “molti sono stati i giovani musicisti che hanno abbandonato l’abitudine di suonare a rotazione nei tradizionali locali jazz per sperimentare nuovi luoghi, come ristoranti e lofts privati. Quella di riunirsi nelle case per fare musica – aggiunge – è un’abitudine nata per sopravvivere alle restrizioni pandemiche e sembra persistere”.

Quando la musica si è fermata, a metà marzo del 2020, i jazz club – con le loro luci soffuse e i tavolini fittissimi – sono stati tra i luoghi considerati più pericolosi, tanto che ogni locale jazz indipendente della città ha subito un tracollo: dal Village Vanguard, il piccolo e prestigioso club del Greenwich Village, allo Smalls, un grintoso club underground. E l’agonia della scena jazz ha continuato ad essere alimentata dalle innumerevoli perdite di grandi personaggi dell’ambiente: il critico Stanley Crouch, il pianista Ellis Marsalis Jr., il trombettista Wallace Roney, il pianista francese Claude Bolling e l’icona camerunese Manu Dibango, solo per citarne alcuni. Ma nonostante queste disavventure, i jazz club continuano ad essere considerati luoghi sacri soprattutto dagli artisti. “È lì che imparano il loro mestiere”, ha affermato l’autore David Hajdu, professore alla Columbia University Graduate School of Journalism. “Sono i luoghi in cui i musicisti jazz trovano la loro voce – aggiunge Hadju – mentre suonano in gruppo ed entrano in sintonia con il pubblico”.
Anche per Linda Briceño, una produttrice di musica latina, vincitrice di un Grammy e venuta a New York come aspirante trombettista otto anni fa, “i club sono semplicemente luoghi insostituibili per formarsi”. “La prima cosa che i colleghi adulti mi hanno consigliato a New York è stata: devi apprendere dalle jam session, solo così puoi migliorarti e conoscere il repertorio”.
All’inizio del 20° secolo, non esisteva una scena jazz a New York. I jazz club si trovavano principalmente a New Orleans, l’epicentro di quest’arte unicamente americana e nera. La città ospitava leggende come Louis Armstrong e Jelly Roll Morton. Poi l’influenza spagnola colpì gli Stati Uniti e i club dovettero chiudere. Ciò ha aiutato il jazz a prendere piede nelle città del nord, poiché i musicisti in difficoltà (che fuggivano dalla pandemia e dal razzismo) cercavano fortuna in città come New York, che non solo li accolse ma fece fiorire il loro stile musicale nei primi club di Harlem.

La storia a quanto pare si ripete, ma in in forme di sopravvivenza diverse. Perché se i musicisti jazz, dopo la pandemia influenzale del 1919, suonavano in club famosi come il Cotton Club sulla West 125th Street, oggi, dopo la pandemia del coronavirus, la musica jazz resiste grazie alla tecnologia e ai live streaming. E quello che più sorprende è la nuova veste in cui è tornata: grazie alla rete culturale sempre più nutrita e organizzata, erede di quella tendenza a far “gruppo” presente nell’isolamento, che ha permesso di sperimentare flussi moderni e irresistibili di giovani talenti.
Gli stessi che non sentono propri gli iconici jazz club perché catalizzatori di una trasformazione che rispecchia nuove necessità. Ne è l’esempio The Jazz Gallery, un club a 10 isolati a nord di Union Square, che dà spazio ai giovani jazzisti progressisti, ed è diventato un hub essenziale. Rio Sakairi, la direttrice artistica – che coltiva talenti emergenti e incoraggia le vecchie generazioni a fare da mentori alle nuove – è consapevole che la scena jazz newyorkese è in piena transizione e quello che augura “è un’impollinazione incrociata negli spazi storici (Smalls, la Jazz Gallery e il National Jazz Museum di Harlem) tra tradizione e sperimentazione”.

I vecchi club, dove le energiche jam session notturne hanno ripreso fino alle prime ore del mattino, non sono più i luoghi adatti per ascoltare i suoni all’avanguardia. E lo conferma la cantante, flautista e produttrice Melanie Charles, 34 anni, che ha trasformato la sua casa di Bushwick in uno spazio per le prove, oltre che a uno studio di registrazione e un luogo di ritrovo. “Quando si esibisce, di solito, non è nei jazz club tradizionali perché nel suo rapido e scomposto esplodere di successioni di note utilizza anche la musica elettronica e questo richiede qualcosa di più che un semplice contrabbasso offerto dai vecchi locali”. Non a caso tra i posti preferiti di Charles per suonare c’è il Cafe Erzulie, un ristorante e bar haitiano nascosto lungo il confine tra i quartieri Bushwick e Bedford-Stuyvesant di Brooklyn. Lo stesso vale per il sassofonista Nicola Caminiti, che con il suo gruppo “Nicola Caminiti Quartet” si esibisce regolarmente a The Jazz Gallery da un paio d’anni. E grazie alla direttrice artistica che ha creduto nelle sue idee – Rio Sakairi – è riuscito a costruire un progetto solido con il quale entrerà in studio, questo giugno, per registrare l’ album di debutto”.

Nicola racconta anche che “le opportunità nei jazz club sono ridotte a causa dell’elevato numero di musicisti in città” e così locali distanti dall’immaginario jazzista – la IRL Gallery e l’Owl Music Parlor – sono diventati molto ambiti.
Il jazz è un genere che, per la sua natura creativa e per il fatto che trae linfa vitale dalla storia e dalla società, vive in una sorta di stato di transizione continua sia da un punto di vista prettamente musicale sia tenendo conto di ogni aspetto extra-musicale che lo circonda. E così riconoscere e accogliere la nuova generazione di jazzisti che battono il ritmo di melodie all’avanguardia sui palchi solidi della tradizione è l’urgente richiesta della presente “evoluzione”, che mira ad unire il vecchio e il nuovo in un unico moderno concetto di club.