Un dramma riassunto letteralmente in venti parole: una donna è morta travolta da un convoglio della metropolitana dopo essere stata spinta sui binari da uno squilibrato senzatetto. Bastano queste parole per catturare l’orrore di quanto era avvenuto sabato mattina in una stazione della metropolitana nella centralissima Times Square. Ma a quarantott’ore di distanza emerge un quadro più complesso che non si puó riassumere in poche parole.
La vittima — inizialmente identificata semplicemente come una donna asiatica di quarant’anni — ora ha un nome, un volto, una professione e un indirizzo. Michelle Alyssa Go aveva origini etniche cinesi ma per il resto era americanissima. Laureata presso la prestigiosa Stern School of Business che è parte della New York University, lavorava alla Deloitte, gigante delle consulenze aziendali. Ma il particolare che personalmente mi colpisce di più è che abitava sulla 72sima Strada nel quartiere dell’Upper West Side. È lì dove abito io — all’angolo della 72sima Strada. È un dettaglio che mi permette di chiudere gli occhi e immaginarmi come sia arrivata nel punto dove ha visto la sua fine. Quattro passi a piedi per giungere alla stazione della metropolitana su Broadway e la Settantaduesima Street, giù per le scale ad attendere la metropolitana della linea 2 o 3, quella express che in meno di cinque minuti porta allo snodo di Times Square. Da lì riesco a immaginarmi la Go che sale le scale, gira a destra e percorre il corridoio che collega i treni della linea rossa con quelli della linea gialla. Giù per le scale, ancora giù sulla destra e lì Michelle ha atteso l’arrivo di un convoglio. Quello che non si aspettava è che il braccio violento di uno squilibrato senzatetto la spingesse sotto un treno.
Racconto questi particolari perché ogni evento — dai più sereni ai più tragici — ci colpisce in modo differente quando ci riusciamo a immedesimare del tutto con i protagonisti. Non faccio fatica a immedesimarmi con ogni passo, ogni tratto, ogni gesto che probabilmente ha fatto la Go nel corso di quella ventina di minuti prima di morire travolta da un treno in corsa.

Inizialmente si era detto che Michelle stava attendendo la metropolitana con altre due donne. Non è stato così. C’era però un’altra donna non lontana da lei che pochissimo prima era stata approcciata dal medesimo squilibrato e aveva temuto di venire buttata sui binari. Lo ha rivelato agli agenti del NYPD quando ormai per Michelle Go non c’era più niente da fare.
“Si era avvicinato a lei a distanza eccessivamente ravvicinata e lei si era allarmata”, ha affermato Jason Wilcox, vicecapo della polizia. “Lei aveva tentato di allontanarsi ma lui aveva continuato a tampinarla, al punto che lei aveva avuto la sensazione che stesse per spingerla sotto a un treno. Si era allontanata e non appena si era girata aveva visto l’uomo che spingeva un’altra vittima sotto al convoglio in arrivo”.
La potenziale vittima è un personaggio con cui non riesco a immedesimarmi. Non sono in grado di immaginarmi che cosa potrei provare se fossi stato così vicino dall’avere fatto la fine della Go. Non riesco a pensare ai sentimenti che proverei se avessi visto la morte così da vicino. Non sono in grado di processare quello che si prova quando si tocca con mano il destino e basta un istante perché tutto finisca.

Neppure con Simon Martial riesco a immedesimarmi. Non importa quanti particolari emergano sull’autore dell’orribile gesto, non riesco comunque a entrare nella mente malata di una persona che per nessun motivo fa fare a una sconosciuta una fine così tragica. Malato di mente sì, ma solo fino a un certo punto. Perché il sessantunenne Martial era riuscito a dileguarsi, aveva preso la metropolitana e tredici minuti dopo era sceso alla fermata di Canal Street. Era andato al commissariato della Transit Police e lì aveva ammesso tranquillamente il gesto che aveva appena commesso.
“Ho appena spinto una donna sotto un treno”, aveva detto a un poliziotto, come ha rivelato il capo della polizia di New York, Keechant Sewell, nel corso di una conferenza stampa insieme al sindaco Eric Adams. Trasferito al commissariato di polizia di Midtown per un interrogatorio Martial ha “giustificato” il suo attacco affermando di essere “God”, cioè Dio. “Sì, perché sono Dio. Sì, sono stato io a farlo. Sono Dio e ho il potere di farlo”. Ma un attimo dopo ha aggiunto un particolare. “Mi aveva rubato la mia fottuta giacca. È per quello che l’ho fatto”.
Come possiamo reagire noi abitanti di New York? Come possiamo attutire il colpo di una tragedia con cui ci possiamo immedesimare così da vicino? Cosa possiamo fare per sentirci più sicuri in una città che adoriamo ma che progressivamente ci fa sentire in costante pericolo? Certo, possiamo smettere di usare la metropolitana benché sia una strumento essenziale nella vita della nostra metropoli. Possiamo stare più guardinghi e cercare di essere più allerta su chi ci passa vicino. Possiamo osservare basilari regole di sicurezza come quella di non oltrepassare la linea gialla sulla banchina o di posizionarci in modo da non perdere facilmente l’equilibrio. Ma bastano questi piccoli accorgimenti per sentirci più sicuri? Non bastano perché il problema di fondo è che da anni New York ha perso il controllo della crescente realtà della malattia mentale.

Basta qualche statistica per capire quanto sia grave la situazione. Nell’area metropolitana di New York vivono 19,5 milioni di persone. Di queste, 673mila sono adulti affetti da gravi disturbi mentali. A questi si aggiungono 204mila minorenni anch’essi affetti da disturbi psichici. Ma i numeri si fanno ancora più inquietanti quando aggiungiamo la problematica della malattia mentale combinata con l’uso di stupefacenti. Allora arriviamo a 1,4 milioni di persone. Le statistiche rivelano che di queste persone solamente il 50 per cento è in cura. Altro dato: circa 15mila persone in carcere a New York sono affette da disturbi mentali. Quando a questa realtà aggiungiamo quella dei senzatetto la situazione diventa insostenibile.

Ci sono più di 43mila persone senza fissa dimora a New York. Molte vivono in strada, altre hanno come punto di riferimento i rifugi per senzatetto. Ma altre ancora usano i vagoni caldi della metropolitana per sopravvivere soprattutto nei mesi freddi. Vivono lì, mangiano lì, dormono lì, fanno i loro bisogni lì. Ed è anche lì dove la loro mente malata degenera nella follia.
Non basta dunque più polizia per evitare tragedia come quella di Michelle Go. Non bastano linee gialle. Non basta massima vigilanza personale. Serve con estrema urgenza un piano che contenga la crescente realtà di gente che non si può permettere di avere un tetto sopra la testa. Perché dalla strada alla follia il passo è breve.