Va in scena il grande cinema nella Casa Italiana Zerilli-Marimò, sede del Dipartimento di Studi Italiani della New York University. Una conversazione fra Antonio Monda, docente presso il Film and Television Department della New York University e Direttore artistico della Festa del Cinema di Roma e Anthony Oliver Scott, critico cinematografico del New York Times. L’evento si inserisce all’interno del più ampio contesto del Festival chiamato proprio “Le Conversazioni”, fondato nel 2006 da Antonio Monda e Davide Azzolini, in origine dedicato alla letteratura e in seguito esteso anche ad altre discipline. Il Festival nasce a Capri dove tuttora, ogni estate, si tengono gli eventi, ma si estende anche ad altre città come New York, Roma e Bogotá. Nel 2015 è stata inaugurata anche una versione televisiva del Festival, intitolata “Le Conversazioni/Close Up”, trasmessa in Italia dalla RAI, di cui la prima ospite illustre è stata Meryl Streep. Nelle prime undici edizioni hanno partecipato alle Conversazioni alcuni dei più grandi scrittori, architetti, registi, musicisti e artisti del mondo. Il tema del dibattito fra A. O. Scott e Antonio Monda, che ha avuto luogo lo scorso 30 novembre, è stato il cinema ambientato nella città di New York.
Si procede per decenni, a partire da un affascinante montaggio di alcune fra le più note pellicole degli anni Dieci del Novecento, dal leggendario The Immigrant di Charlie Chaplin a Ragtime di Miloš Forman, proseguendo con America America di Elia Kazan e Il Padrino – Parte II di Francis Ford Coppola. Scott sottolinea che il primo decennio del Novecento è stato un periodo estremamente interessante per la Storia del Cinema: l’industria cinematografica prendeva l’avvio e l’immigrazione era il tema chiave dei film ambientati nella Grande Mela. In particolare, riguardo al film America America, Scott ricorda che si tratta di una grande epopea dell’immigrazione, evocando la fine dell’Ottocento, quando le minoranze greche e armene erano in stato di oppressione. In questo scenario, che Kazan tratta in un equilibrio sottile fra la partecipazione emotiva e l’engagement politico, il giovane greco Stavros sogna l’America e, in contrasto con la famiglia e le autorità turche, riesce a imbarcarsi e a raggiungere l’agognata New York, che per lui simboleggia la libertà e la prosperità in una patria oppressa dalla miseria e dalla crudeltà turca. Riguardo a Chaplin, Scott si dichiara più incline alla partecipazione emotiva ai film del regista, piuttosto che alla disamina tecnica. Alcune scene del film The Immigrant rimangono infatti indelebili nella memoria universale; del resto, milioni di individui hanno vissuto realmente l’arrivo nel Nuovo Mondo da emigranti a bordo dei piroscafi sul finire del XIX secolo e gli inizi del XX, e Chaplin stesso fu un emigrante, seppur privilegiato. La ricostruzione cinematografica dell’apparire della Statua della Libertà tra le nebbie del porto di New York lascia trapelare la commozione che sicuramente colpiva la schiera dei migranti al primo impatto con la terra sognata.
Si prosegue con i mitici anni Venti, ancora con Francis Ford Coppola e il film Cotton Club, incentrato sull’omonimo celebre club newyorkese: una pellicola che secondo i due critici non è perfettamente congegnata e probabilmente non esprime la migliore interpretazione di Richard Gere, ma riveste un interesse nel porre il focus sulla discriminazione razziale dell’epoca: nel Cotton Club si esibiscono infatti una grande varietà di artisti di colore, ma l’accesso viene riservato solo ai bianchi. Nei Roaring Twenties è ambientato anche Il Grande Gatsby, diretto da Baz Luhrmann e interpretato da Leonardo Di Caprio, di cui Scott loda l’energia e l’efficacia della performance che rispecchia appieno il carattere di Jay Gatsby, il personaggio dell’omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald da cui è tratto il film.
L’analisi dei film ambientati a New York, decennio dopo decennio, prosegue con gli anni ’30, e non si può non parlare di King Kong nelle sue diverse versioni, fra le quali il critico del New York Times predilige la seconda del ’76, diretta da John Guillermin, prodotta da Dino De Laurentiis e interpretata da Jessica Lange. Forse il primo disaster movie nella Storia del Cinema realizzato con le più moderne tecnologie sonore in grado di scuotere la sala cinematografica e impressionare gli spettatori. Divertente l’aneddoto raccontato da Monda a proposito di questa versione del film: quando una giovane e ancora sconosciuta Maryl Streep si presentò al provino per interpretare la parte della bella Dwan, fu scartata con convinzione dal produttore De Laurentiis, che non fu lungimirante nel cogliere il suo talento, affidando la parte alla Lange, che diventò famosa grazie a quel ruolo.
Si passa poi a commentare il film La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen, ambientato nel periodo della grande depressione e considerato da Scott un film affascinante e tra i più nostalgici del periodo, la vetta più alta del sodalizio umano e artistico fra il regista e Mia Farrow. Il critico confessa di esser stato molto influenzato da Woody Allen nella sua visione del mondo e delle relazioni umane. La clip che mostra alcune scene di film degli anni ’40 si apre con l’inconfondibile intro del pianoforte di New York New York. Alla domanda di Antonio Monda quale sia secondo Scott il più significativo film-maker che ha meglio rappresentato nel cinema la città di New York, Scott risponde che, benché i film esprimano le più diverse prospettive e i molteplici volti di questa città cangiante, da quelli più crudi a quelli più glamour, in una altrettanto nutrita varietà di generi, dal noir al musical passando per la commedia, i suoi due registi elettivi sono Sidney Lumet e Spike Lee, mentre per Antonio Monda sono Woody Allen e Scorsese.
Segue una panoramica dei meravigliosi anni ’50 che si apre con La finestra sul cortile di Hitchcock per poi mostrare le gambe di Marilyn Monroe diretta da Billy Wilder in Quando la moglie è in vacanza nell’iconica scena della gonna plissettata dell’abito bianco che si solleva ad una folata d’aria fuoriuscita dalla grata della metropolitana; e ancora Fred Astaire che balla in Spettacolo di Varietà di Vincente Minnelli, per finire con le scene criminose ambientate nel quartiere un tempo malfamato di Brooklyn. Eternamente sospesa tra seduzione e corruzione – I love this dirty town, per citare Burt Lancaster in Piombo rovente di Alexander Mackendrick – New York è una città che non si può non amare in tutte le sue contraddizioni e che, come sottolinea Scott, può essere vista da diversi punti di vista anche a seconda del fatto che vi si sia nati o che vi si provenga da immigrati dopo averla a lungo desiderata.
Le differenze sono visibili, in una città così ricca di atmosfere cangianti, anche fra quartieri e distretti e persino fra i vari block. Nelle pellicole patinate dei Sixties trova invece spazio il glamour e la raffinatezza delle ambientazioni di Colazione da Tiffany di Blake Edwards e la coralità scapigliata dei grandi musical come West Side Story e Hair. Una città che viene rappresentata negli anni ’60 anche nel suo lato oscuro, come nello psychothriller Rosemary’s Baby di Roman Polansky, in cui la tensione psicologica viene enfatizzata da una regia naturalistica, o nel Symbiopsychotaxiplasm citato da Scott, un film documentario sperimentale diretto dal regista afroamericano William Greaves, girato nello stile del Cinéma Vérité, in cui si rappresenta la realtà nuda, scevra da ostacoli dati dalla presenza delle telecamere intorno. Il ritmo dei Seventies è scandito dal passo baldanzoso di John Travolta ne La Febbre del Sabato sera di John Badham, dalla corsa affannosa di Dustin Hoffman ne Il maratoneta di John Schlesinger e dai voli supersonici di Superman, l’eroe cinematografico di Richard Donner interpretato da Christopher Reeve. New York è frenetica e ansiogena negli anni successivi alla guerra del Vietnam, e può condurre l’uomo a un’alienazione esasperata, come accade a Travis Bickle (Robert De Niro) in Taxi driver di Martin Scorsese, un film “catartico”, come lo definisce Monda. I due critici concordano sul fatto che uno dei più straordinari film ambientati a New York negli anni ’70 sia Dog Day Afternoon di Sidney Lumet, basato sulla storia vera di una tentata rapina in una banca a Brooklyn. Un film carico di tensione ma, allo stesso tempo, secondo Scott, estremamente umano nella rappresentazione dei caratteri, con due convincenti interpretazioni di Al Pacino e John Cazale.
Arrivano gli anni ’80: è l’apice della Hollywood renaissance e si assiste al trionfo della Commedia con opere come Hannah e le sue sorelle di Woody Allen, Tootsie di Sydney Pollack, Re per una notte di Martin Scorsese, Harry, ti presento Sally di Rob Reiner e… “Capitolo primo. Adorava New York”, of course, Manhattan di Woody Allen nel suo affascinante bianco e nero retrò. Non solo buonumore, tuttavia, negli Eighties: emergono infatti varie problematiche sociali testimoniate da una serie di registi impegnati e sperimentali come Spike Lee, i fratelli Cohen e Steven Soderbergh, fino ad arrivare alla indie wave degli anni ’90. È l’epoca di film drammatici come Donnie Brasco di Mike Newell con Al Pacino e Johnny Depp, di King of New York di Abel Ferrara con Christopher Walken e di Carlito’s Waydi Brian De Palma, ma anche di grandi commedie romantiche come Insonnia d’amore di Nora Ephron, Tutti dicono I love You di Woody Allen, Al di là della vita di Martin Scorsese fino all’apoteosi de La leggenda del re pescatore di Terry Gillian con la sua epica, corale e danzante scena romantica alla Central Station.
L’ultima clip illustra gli anni Duemila, con Madagascar, il film d’animazione prodotto dalla Dreamworks Animation e I Tenembaum di Wes Anderson; non mancano alcune sequenze futuriste da Fuga da New York di John Carpenter che raffigura Manhattan come una prigione e A. I. di Steven Spielberg dove New York, che sta per essere sommersa dalle acque, è “la città perduta alla fine del mondo” Se si dovesse individuare l’attore che ha meglio rappresentato New York più a lungo sarebbe senza dubbio Al Pacino, secondo Scott. Ma per sapere chi ha la meglio secondo i due critici nell’eterna diatriba americana De Niro vs. Al Pacino, è possibile seguire il dibattito a questo link:
http://www.casaitaliananyu.org/multimedia
La conversazione si conclude con la battuta ironica di Antonio Monda: “New York, otto milioni di persone, otto milioni di storie; Los Angeles, otto milioni di persone, una storia”.