Secondo due studi resi pubblici da Caltech e Columbia University, la Grande Mela potrebbe essere alle prese con una variante autoctona, newyorkese, chiamata B.1.526. Il suo genoma è stato riscontrato per la prima volta a metà Novembre e preoccupa gli scienziati perché condivide alcune caratteristiche con la variante sudafricana. Il team della Columbia riporta di avere osservato uno “stabile aumento nella detezione [della variante newyorkese] da dicembre a metà febbraio”, tanto che oggi sarebbe riscontrabile in circa un quarto dei contagiati newyorkesi.
Occorre specificare che i due studi non sono stati pubblicati su giornali scientifici, quindi non si tratta di lavori peer reviewed, ma solo di informazioni condivise e diffuse in anteprima dagli studiosi dei due laboratori.
La pubblicazione di questi dati ha portato la dottoressa Varma, consigliera del sindaco De Blasio, a lamentarsi del lavoro degli scienziati: “richiesta agli accademici: per favore discutete gli studi molto rilevanti con il dipartimento della Sanità del Governo prima di promuoverli nei media. Ci troviamo a dover decifrare la scienza da riassunti giornalistici mentre rispondiamo a domande da elettori e reporter su come questo cambi le politiche. La patopornografia non aiuta la sanità pubblica”.
Le risponde il coordinatore dello studio della Columbia, David Ho, tramite un programma radiofonico: “è buffo che veniamo criticati di fare buona scienza per allertare la città di cosa accade. I funzionari del Comune erano stati informati un paio di settimane fa”.

Ma al netto delle polemiche, quanto dovrebbe preoccupare questa variante newyorkese? Come ha detto il dottor Anthony Fauci in una recente intervista dobbiamo “sempre preoccuparci delle varianti”, nel senso che esse devono essere monitorate.
Un virus muta costantemente, questo è nella norma, dunque rintracciare una variante non è certo una notizia da prima pagina. Molte varianti sono semplicemente forme leggermente differenti dello stesso virus, né più pericolose né più infettive. L’OMS distingue due tipi di varianti cui fare particolare attenzione: “varianti preoccupanti” (variants of concern), che potrebbero avere importanti implicazioni per la sanità e devono essere contrastate, e “varianti di interesse” (variants of interest), che devono essere sorvegliate e studiate.
La versione newyorkese del virus per ora è una variante “di interesse”, su cui occorre raccogliere più dati. Il virologo Stephen Goldstein dell’Università dello Utah, infatti, ha constatato che la consigliera di De Blasio non ha tutti i torti, e gli allarmi lanciati dai due studi Columbia e Caltech sono un po’ prematuri. “Se pensiamo a quando la Gran Bretagna ha iniziato a fornire informazioni sulla sua variante B.1.17 c’era una enorme quantità di dati dai loro gruppi di lavoro di scienziati indipendenti (…) a supporto dell’idea che fosse più infettiva”. A confronto, per questa nuova variante “la quantità di informazioni disponibili impallidisce”.
Insomma, per ora non vi è nessun bisogno di farsi prendere dal panico, ma nemmeno di abbassare la guardia. I vaccini ad ora approvati, incluso il nuovo arrivato Johnson&Johnson’s, sono un buon alleato anche contro le varianti più studiate (britannica, sudafricana e brasiliana) e, qualora ve ne fosse la necessità, possono essere adattati per mantenere la loro efficacia anche contro nuove mutazioni del virus.