Great Stories Are Timeless, (le grandi storie sono senza tempo), questo lo slogan di Tribeca 2019, con il quale il festival di cinema più importante per l’industria cinematografica newyorchese, ci invita a privilegiare la potenza della narrativa alla spettacolarità visiva che è il marchio di fabbrica al quale Hollywood ci ha abituato. Rispetto a Sundance, che è il festival indipendente per eccellenza, e la Hollywood degli Academy Awards, Tribeca si inserisce a metà strada, crescendo sempre di più nel corso degli anni e diventando un importante spartiacque per l’anno cinematografico americano ed internazionale. Un palco dove la modernità e la tradizione filmografica si incontrano. È senz’altro molto indicativo che quest’anno sia lo storytelling il focus della manifestazione, ma d’altronde è proprio della scuola americana il concetto che non esiste un buon film senza una buona storia.
Tribeca quest’anno interpreta anche quello che è in effetti il trend del momento dell’industria dell’entertainment americano, dove la TV sta prendendo il sopravvento sul cinema. Siamo nell’era delle piattaforme streaming, di Netflix, Hulu, HBO… ed è proprio su queste piattaforme dove lo storytelling di alto livello la sta facendo da padrone. Il successo della serialità ha riportato in voga il ruolo chiave di sceneggiatori ed autori, le cui storie sono supportate anche da un impianto produttivo del tutto spettacolare, con dei budget che un tempo erano dedicati esclusivamente ai kolossal e ai blockbusters per il grande schermo.
Altro grande trend del momento, che diventa trend ma è in verità urgenza, necessità e doverosità di cronaca, è la volontà di raccontare la diversità etnica, il ruolo della donna nella società e la comunità LGBTQ+ a cui è dedicata un’intera giornata del festival. Sono i tempi che sta vivendo l’America trumpiana, quel subliminale terrorismo protezionista che è percepito come una minaccia ai valori liberali aldilà che poi sia politicamente consistente o meno.
È significativo infatti che il film che ha aperto il gala del festival sia stato “The Apollo” di Roger Ross Williams. Un’anteprima di HBO, un documentario incentrato sulla comunità Afro-Americana e sugli artisti che hanno fatto la storia del celebre Apollo Theater di Harlem. Sulla stessa scia, un’altra anteprima di HBO: “What’s My Name – Muhammad Ali” di Antoine Fuqua, incentrato sulla figura del celebre pugile, filantropo e attivista afroamericano.
Altro focus importante di quest’anno è la comunità LGTQ+, il festival anticipa di poco il grande evento del World Pride che si terrà a New York dal 28 giugno al primo di luglio e che celebra il cinquantesimo anniversario dei moti dello Stonewall, il locale nel West Village di New York davanti al quale la comunità LGBTQ+ si è battuta contro la polizia negli anni Settanta per rivendicare i loro diritti. Sabato 4 maggio sarà una giornata interamente dedicata a questo tema così come era stato l’anno scorso per il Time’s Up movement. In occasione ci sarà l’anteprima mondiale di “Wig” di Chris Moukarbel, un nuovo documentario sempre di HBO che racconta la vita, la cultura e l’arte delle Drag Queen in particolare nell’area metropolitana di Manhattan. Tra gli altri film di genere spiccano il documentario “For They Know What They Do” di Daniel Karslke che indaga la controtendenza conservatrice, cattolica e bigotta che ha ultimamente cercato di minare le libertà raggiunte con fatica ed i diritti umani della comunità LGBTQ+, concentrandosi su quattro famiglie americane ancora vittime e schiave di un certo dogmatismo cattolico, e descrivendo anche la surreale realtà delle comunità terapeutiche per convertire gli omosessuali in eterosessuali. Un punto di vista diverso ed inedito è invece quello di “Circus Books” di Rachel Manson che racconta la storia atipica dei suoi genitori che si sono ritrovati a gestire un pornoshop gay nonostante la provenienza e l’apparenza molto conservatrice. Sullo sfondo dell’America trumpiana invece, il documentario “Gay Chorus Deep South” di David Charles Rodrigues, risponde alle politiche discriminatorie portando un messaggio di tolleranza, integrazione e positività grazie ai 300 cantanti del San Francisco Men’s Chorus che girano su un bus il profondo sud dell’America cantando ed affrontando importanti temi religiosi e politici. Interessante ritratto è anche quello di Nick Zeig-Owens, il regista di “Almost Family” del 2014, che tratteggia a tinte forti l’ascesa al successo di “Trixie Mattel” una delle protagoniste del celebre RuPaul’s Drag Race, evidenziando il lato sfavillante e quello più sofferto dell’uomo dietro i lustrini di Trixie: Brian Firkus.
Accanto alla tematica LGBTQ+ il focus sull’universo femminile rimane un tema di attualità sempre molto vivo. In tal senso è proprio l’unico film italiano in concorso a presentarci un lato inedito, almeno per il pubblico occidentale, delle regole che una donna è ancora oggi costretta a seguire in regimi sociali prettamente patriarcali. La regista romana Michela Occhipinti in “Flesh Out – Il corpo della sposa”, ci racconta la storia di Verida una ragazza della Mauritania che si ribella ad una delle tradizioni della sua comunità che prevede che le donne una volta combinato un matrimonio debbano necessariamente ingrassare per risultare più formose e più avvenenti all’occhio maschile. Interessante paradosso in un paese dove essere in carne è considerato sensuale, ma dove la schiavitù della donna all’ideale di bellezza imposta dalla società patriarcale rimane drammaticamente immutato, mutatis mutandis. Rimanete sintonizzati sulle pagine de La Voce di New York per l’intervista esclusiva con la regista.

Dal punto di vista degli incontri con registi e celebrità spicca su tutti la conversazione tra Martin Scorsese e Robert De Niro che sicuramente calamiteranno l’attenzione mediatica del festival. La loro è una collaborazione di lunga data. Le due icone del cinema hollywoodiano, entrambi di origini italiane, hanno collaborato insieme in ben otto film, tra i quali “Taxi Driver” e “Raging Bull (Toro scatenato)”, per il quale De Niro ha vinto l’Oscar come migliore attore protagonista.
Tra i film in concorso nella sezione “USA Narrative” segnaliamo “Clementine” di Lara Jean Gallagher con Otmara Marrero e Sydney Sweeney. Un’opera prima che si caratterizza come un intrigante viaggio dentro un mondo femminile intimo e sensuale. Altro film interessante è “Swallow” di Carlo Mirabella-Davis, un altro giovane regista newyorchese che ci racconta un thriller domestico, un mistero noir con punte di tagliente satira incentrato sulle ossessioni di una donna schiava del suo ruolo di moglie e casalinga, interpretata da Haley Bennett. Claustrofobico ed esistenzialista.
Sul fronte internazionale, in competizione, oltre al bel debutto in America di “Flesh Out” di Occhipinti, stupisce ancora una volta la grandissima Isabelle Huppert, icona del cinema francese e attrice audace sempre in cerca di esplorare il lato oscuro dell’animo umano. In “White As Snow – Blanche Comme Neige”, la regista Anne Fontaine ci regala il ritratto di una Huppert crudele matrigna della giovane Claire (Lou de Laâge), in una storia dalle venature erotiche che racconta del risveglio sensuale di un’adolescente allo sbocciare della sua età adulta e della perversa gelosia di una madre che sente minacciato il suo ruolo di donna.
Tra emancipazione e castrazione. Nella sezione narrativa americana, molto attesi sono “Dreamland” del giovanissimo regista ventitreenne Miles Joris-Peyrafitte, che si era già fatto apprezzare dal pubblico e dalla critica con “As You Are”, presentato in competizione a Sundance. In “Dreamland” il regista ci racconta una storia tutta americana ambientata nel periodo della Depressione in Texas, dove un giovane ragazzo che vive in povertà in una desolata fattoria trova l’occasione della vita quando si imbatte in Allison Wells, interpretata dalla sempre più brava Margot Robbie, una ladra di banche sulla quale pende un riscatto di $20,000 dollari.
Un’altra storia che esplora un lato dell’America, duro, spietato e delinquente è “Extremely Wicked, Shockingly Evil, and Vile”, di Joe Berlinger, un veterano di Sundance. Film autobiografico sulla figura del serial killer Ted Bundy vista dal punto di vista della sua fidanzata storica Liz Kloepfer. Protagonisti della pellicola Zac Efron, che passa sempre di più alla dark side svestendo i panni del bravo ragazzo dei film della Disney; Lily Collins, figlia del musicista Phil Collins, giovane attrice molto quotata al momento, e John Malkovich, in un cameo di grande effetto.
Nell’elogio alle forme di narrativa, Tribeca 2019 si fa anche portavoce delle avanguardie stilistiche che vanno sempre di più nella direzione dei contenuti, digitali, virtuali, e le nuove tecnologie interattive che consentono delle esperienze narrative completamente immersive. La sezione, intitolata per l’appunto Immersive, propone le avanguardie del genere Virtual Arcade e Virtual Reality Escape che si possono sperimentare con Oculus o altri sofisticati strumenti che aprono le porte alle realtà parallele e al role playing. In tal senso, Tribeca Cinema360, è un teatro virtuale dove si possono sperimentare 12 film con una visione a 360 gradi, oltre la barriera del tridimensionale.
Il Tribeca Film Festival 2019 si concluderà il cinque maggio con il Gala finale delle premiazioni. Rimane aggiornati sulle pagine social de La Voce di New York per anticipazioni e recensioni di alcuni dei film in tempo reale.
Per sapere di più sul festival e per acquistare i biglietti delle diverse proiezioni cliccare qui.
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