Arriva un attore con il suo bagaglio di parrucche e costumi pronto per andare in scena, ma il palco è vuoto, la replica è sospesa. Lui decide lo stesso di mettere in scena quello che ricorda dello spettacolo e allora viene fuori il racconto di una passione tutto personale, forse caotico, ma in fondo tutto vero per quanto è vera la vita.
Con questa premessa arriva sul palco di InScena festival per la regia di Vinicio Marchioni, “Una passione”.
Un sodalizio già sperimentato in altri lavori teatrali quello tra Marco Vergani (attore) e Vinicio Marchioni (regista), che dimostra di essere efficace e funzionante anche nella rappresentazione di questo breve testo di Valentina Diana , che ha la durata e l’intensità di una carezza, ma tutta la forza e il sapore dell’autenticità.
Una verità raccontata da un uomo qualunque, una semplice comparsa che lavora in un grande spettacolo, il quale contrariamente alla ragione dei grandi personaggi, mostra la sua verità innocente e piccola di guitto artista relegato all’interpretazione di ruoli minori, inconsapevolmente buffo, che di ragione ne ha solo una, la sua, giusta o sbagliata che sia, ma vera e palpitante come è l’attore che abbiamo davanti.
Abbiamo intervistato per la Voce di New York gli ideatori di questo spettacolo.
Ci racconti la genesi di questo progetto?

Valentina Diana: “Questo testo è nato da un personaggio. È stato il personaggio, a chiamare il testo. All’inizio mi immaginavo, o meglio vedevo proprio, un attore solo. Un attore sfigato, di una compagnia di un colossal, un attore tra gli ultimi, di quegli attori che in tanti anni non hanno ai fatto il salto, non sono mai diventati nessuno. Ma questa, per me, nella visione, era la sua forza. un ultimo tra gli ultimi, solo. Dimenticato.
Quando l’attore, di cui non sappiamo neanche il nome, si presenta al pubblico è subito a disagio di se stesso, è smarrito. Le sue prime parole sono:” Mi dispiace” per molto tempo nella mia testa, questo personaggio non ha detto altro. Non ha fatto altro se non enunciare il proprio smarrimento di fronte alla condizione della propria presenza, della propria presenza. Il disagio, che, evidentemente, era anche mio. E continua ad esserlo.
Il disagio e lo smarrimento di trovarsi all’improvviso, di realizzare di essere visti. Esistere negli occhi degli altri in quanto essere esistente, essere umano.Il problema di questo attore è da subito dichiarato: io, da solo, non significo niente, perché sono parte di qualcosa di più grande di me, molto più grande, che mi comprende quasi per caso e di cui non sono che un’infima componente. L’ultima, appunto.”
Cosa significa per te andare in scena a New York?
Marco Vergani: “Non faccio nessuna distinzione fra le città e gli spazi in cui mi trovo a recitare. C’è sicuramente un entusiamo maggiore perchè siamo all’interno di un Festival e ne siamo onorati, ma a NY come in un paese di provincia ciò che è importante come attore è riportare fedelmente allo spettatore ciò che abbiamo scoperto durante le prove di questo testo. Non solo intrattenere ma restituire qualcosa di più, una riflessione”.

Come è stato interpretare il personaggio principale? Cosa lo rende più umano?
Marco Vergani: “Questo personaggio è nel presente. Questo è il mio compito, questa è stata la chiave registica. Tutto ciò di cui ho bisogno è rimanere aderente alla situazione in cui si trova il personaggio ovvero una comparsa\attore sul palco con un pubblico davanti. Non ci sono da testo scenografie o ambienti, tutto è lì, nel presente. Quella è la chiave. Quella la grandissima difficoltà. Un continuo rilancio con se stessi, fare surf con il proprio senso critico che spesso imprigiona per liberarsi i ed accogliere questo grande flusso di coscienza che attraversa il personaggio.Come ogni processo creativo c’è stata una fase critica. Ciò che conta è il lavoro di squadra e il regis ta da fuori che fa da specchio e che senza invadenza ti guida. Questo è successo”.
Quali sono i punti di forza e perché dovrebbe essere visto questo spettacolo?
Milena Mancini: “L’assenza di scenografia in questo spettacolo non è solo per essere aderenti al testo ma per lasciare spazio all’immaginazione del pubblico; in un epoca in cui tutto ha un hashtag il Vuoto scenico nello spettacolo si colma di parola e movimento e diventa secondo me il suo punto di forza.In tutti gli spettacoli godiamo sempre delle performance del primo attore, in questo caso ci verrà aperto un mondo sconosciuto e insieme all’ultima “comparsa” scopriremo un punto di vista inedito, tenero, comico e grottesco”.
E ora tre domande al regista Vinicio Marchioni.

Quali sono i punti di forza dello spettacolo e perché è da vedere?
“E’ una perfomance apparentemente “semplice”, ma ovviamente la grande semplicità è il risultato, il punto di arrivo, di un lavoro molto complesso. A partire dalla scrittura di Valentina Diana che, attraverso la meta teatralità della situazione, sovrappone l’esistenza del più umile e sconosciuto degli attori a quella di Cristo. La messa in scena è semplice, essenziale. Un palco vuoto e delle luci di servizio. Mi piaceva l’idea di lavorare affinché il pubblico partecipasse davvero all’essenzialità del fatto teatrale: un testo da dire, dei temi da recitare e un attore per fare da tramite col pubblico; niente di più. Ovviamente rendere tutto questo interessante, emozionante e comunicativo è molto complesso. E’ da vedere lo spettacolo perché si ride della solitudine, si ride del teatro e si ride dei luoghi comuni della religione cristiana, il tutto trattato con la massima delicatezza possibile”.
Che cosa si vuole trasmettere con lo spettacolo?
“Questo spettacolo, come credo ogni spettacolo dovrebbe fare, porta dei temi su cui riflettere assieme al pubblico, usando la chiave del grottesco. Da quale punto di vista abbiamo sempre ascoltato la vita di Cristo? Cosa sappiamo della vita degli attori? Cosa ha ogni essere umano in comune con Cristo e con ogni attore? Facciamo davvero una vita cristiana, pur vivendo in una parte di mondo di religione cristiana? Lo spettacolo vuole intrattenere il pubblico cercando di portarlo a fare lo stesso viaggio che il nostro attore fa mentre racconta il musical sulla vita di Cristo. Anche qui, apparentemente una cosa semplice, ma fare spettacolo solo con una storia da raccontare è forse il nucleo fondante del fare teatro.
Nello spettacolo un ruolo importante lo ha la musica. In particolare una canzone di Enzo Jannacci, “Vivere”. Perché questa scelta?
“E’ stata una proposta di Marco Vergani, che abbiamo accettato subito e messa nello spettacolo. Quel motivetto di Jannnacci, anche quello solo apparentemente semplice e orecchiabile, credo racchiuda bene il “tocco” di questo spettacolo. fa sorridere, è leggero, di quella leggerezza che porta con sé la malinconia, che può provocare anche una lacrima sulle miserie del vivere, ma sempre con una carezza all’anima. Infatti il testo dice “vivere senza malinconia … e ridere sempre così, giocando, ridere delle follie del mondo”.
Lo spettacolo giovedì 2 maggio alle 8 pm a Casa Italia Marimò della NYU (24 W 12th St, Manhattan) e in replica il 5 maggio al St. John’s Lutheran Church alle 4:30 pm .